L’ultima tendenza che si sta facendo largo soprattutto tra i più giovani? Dimostrare il proprio “coraggio” facendosi un selfie sui binari mentre sta per passare un treno in corsa (per poi scappare all’ultimo secondo), un gioco davvero pericoloso.
Sembra pazzesco, ma è proprio così.
In questi ultimi giorni sono numerosi i ragazzi denunciati o ricercati dalla Polizia Ferroviaria perché hanno quasi causato degli incidenti o comunque creato intralcio alla regolarità dei treni.
Fotografarsi, per poi rendere social uno scatto. È l'evoluzione della fotografia, forse anche un suo impoverimento. Fino a qualche anno fa fotografare era come estrarre un attimo dal flusso del tempo, sottrarlo dal passato e dal futuro, rendere eterno un qualcosa che ci aveva colpito, trafitto, spalancato su prospettive diverse. Era una liturgia nata per celebrare l'attimo: quando il tempo ci opprime, talvolta è un secondo a salvarci. Esserci, accorgersi, scattare una foto: «La foto è lì, si raccoglie sulla spiaggia. Oggi sappiamo che è un attimo a salvarci», scriveva il fotografo Edouard Boubat. Scattarsi un selfie non ha nulla a che spartire con lo scattare una fotografia. È fotografare tutto ciò che si incontra, non tanto immortalare un frammento che ci colpisce. L'obbiettivo di un fotografo ritrae la quasi verità di un volto: tu, mentre te ne stai immobile a fissare l'obbiettivo, non puoi correggere quel tratto dello sguardo, quell'imperfezione del capello, quel piglio arruffato. Te ne accorgerai appena scattata la foto che, proprio perchè incontrollabile, ti mostra la verità di te stesso in quell'istante. Scattarsi un selfie, invece, è decidere di ritrarsi con tanto per come si è, quanto per come si vuole apparire agli occhi social: si sceglie la posa giusta, l'esibizione più provocante, il lineamento più accattivante. Ti vedi in diretta nello schermo dello smarthphone: solo quando ti sembra d'esserti avvicinato il più possibile all'immagine che vorresti dare di te, premi il tasto e fissi l'immagine. Per poi lanciarla nel mare di internet, come i messaggi nelle vecchie bottiglie di un tempo. In mostra, bella o brutta. Ad importare non è l'inquadratura migliore, il tempo di esposizione esatto, l'intensità della luce e la prospettiva: conta la velocità nello scattare una foto e rendendola social il prima possibile. Pochissime di queste foto sono gradevoli agli occhi: a risaltare è l'imperfezione della postura, la deformazione del volto, le distanze calcolate malissimo tra il soggetto da fotografare e l'oggetto che lo fotografa. Eppure - un quasi paradosso in tempi di perfezione estetica dilagante -, per un selfie si perdona tutto, basta che sia veloce e che arrivi il prima possibile laggiù: in quello schermo, in quella bacheca, in quel contatto di whatsapp. Non mi faccio più ritrarre accanto a ciò che mi colpisce, ma accanto a quello che trovo: un'insalata nel tavolo, un gatto in bagno, un Papa per strada.
Da sempre l’adolescente tenta di mettere in scacco il limite, il pericolo, l’incertezza, anche talvolta facendone un motivo di vita: però sono comportamenti che non si realizzano in solitario, ma in compagnia, perché i compagni sono spesso i destinatari che devono vedere queste condotte. Uno scatto non toglie il senso del pericolo, ma ingrandisce il senso di potenza, mette un intermediario tra sé stessi e l’esterno. Il giovane che scatta ferma il tempo in quel momento, lo congela, lo mette in freezer. Comunica a sé stesso e agli altri ragazzi o ragazze: “vedi, riesco a farcela”. Per chi vive con gli adolescenti moderni, questo aspetto si nota anche nei modi di relazione, nello stile di pensiero, quasi che il tempo non sia un flusso continuo e dinamico ma quasi una serie di spot, di clip. Il selfie è una clip.
I protagonisti non sono bambini e neppure adolescenti ma studenti di scuole superiori ai quali la polizia ha elevato una multa di quasi 300 euro. Che valore può avere per questi giovani la sanzione della Polizia?
Speriamo che non diventi solamente un ulteriore costo economico per i genitori. Ogni sanzione stabilisce un confronto e degli obblighi verso una autorità, ma ha valore se permette di attivare una serie di percorsi di consapevolezza, sia per i giovani e sia per gli adulti che vivono con loro. Il primo riguarda l’assunzione di responsabilità, che significa in primis che ogni comportamento provoca, nella realtà, delle ricadute e conseguenze. Il secondo risponde alla domanda: “come posso riparare?”, in modo da far accedere qualcosa di reale e di concreto, oggettivo, che permette di confrontarsi a livello psicologico e nell’impegno sociale con le effettive possibilità di cambiamento e di responsabilizzazione. Il terzo aspetto rimanda alle capacità critiche e di valutazione del proprio agire in un contesto di realtà, vuol dire chiedersi cosa provoca una mia condotta nell’ambiente circostante.
Talvolta l’adolescente ha bisogno di sostegno nella percezione e nella codifica della realtà individuale e sociale. In questo la funzione dei genitori e delle istituzioni: domandarsi certamente cosa fanno i figli, come passano il tempo, ma anche mantenere costante la curiosità sul perchè dei comportamenti, sui pensieri che li producono. Vuol dire anche rendersi disponibili ad un proprio percorso di consapevolezza e di assunzione di responsabilità. Questo atteggiamento ha però un grande nemico: la percezione di fallimento nella funzione educativa e di riferimento parentale, con una sensazione di impotenza e di incapacità ad essere ancora interlocutori nella vita dei figli.
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