La comunità cristiana, pur condizionata dalla clandestinità e dall’originario aniconismo (proibizione delle immagini) giudaico, si sviluppa in un ambito, quello romano, fortemente desideroso di immagini. Inoltre il precetto ebraico della proibizione delle immagini, non era generalizzato nel mondo cristiano, erano presenti due correnti: la prima legata alle concezioni veterotestamentarie contrarie alle immagini, rappresentata da scrittori del sec. II-III, come Tertulliano Cipriano, Ireneo; la seconda favorevole alle immagini e rappresentata da Clemente e Origene.
I cristiani, immersi nella cultura romana, sin del II secolo trasferirono la tendenza decorativa romana nei loro ambienti famigliari e sepolcrali.
Le opere pittoriche erano affini all’arte funeraria pagana, ma concettualmente diverse. Per il pagano, secondo il quale la morte segna la fine di tutto, la tomba rappresentava il limite oltre il quale non c’è che un mondo di ombre; per il cristiano invece, per il quale la morte segna il passaggio alla vita piena e definitiva, il dies natalis, la tomba costituiva un luogo provvisorio, in attesa del risveglio finale.
Le decorazioni cristiane sono apparentemente molto simili a quelle pagane, ma la concezione di fondo è radicalmente diversa: il cristiano adorna la tomba per dire attraverso le immagini la sua fede, secondario resta l’aspetto “artistico”. Non si deve dimenticare che l’arte paleocristiana era opera dei fossores, cioè di coloro che scavavano i sepolcri e che, molte volte, non sapevano dipingere e scolpire, ma sapevano lasciare nelle immagini una splendida testimonianza di fede vissuta.
Non si sono raggiunte nelle catacombe le alte cime dell’arte, ma tutte le raffigurazioni suscitano interesse ed emozione perché sono rappresentazioni figurative dei primi secoli e ci tramandano la testimonianza della fede nascente e la speranza in Cristo, come dice Costantino Ruggeri.
Le più antiche decorazioni cristiane sono anteriori agli scritti dei padri e assurgono a valore di documento archeologico e teologico iconografico.
Sono state date diverse interpretazioni delle immagini dagli studiosi: Per Giovanni Battista De Rossi le immagini hanno scopo didattico per Viktor Schultze vanno spiegate in relazione al mistero della morte, Edmond Le Blant vi vede il riflesso della liturgia, in queste immagini della salvezza (Isacco liberato dal sacrificio, Giona liberato dal mostro, Susanna dai vegliardi, i fanciulli dalla fornace, Danieledai leoni). Le immagini del repertorio primitivo rifletterebbero i concetti delle prime preghiere liturgiche.
Paul Styger respinge e prospetta una soluzione materialista: cioè la sola finalità decorativa. Aimè George Martimort scorge nell’iconografia l’eco della catechesi antica: la Bibbia forniva gli esempi per illustrare ai catecumeni i misteri della fede. Perciò il repertorio iconografici abbonda di quei paradigmi biblici dell’antico e del Nuovo Testamento (miracoli di Gesù).
Per altri non c’è un’unica chiave di interpretazione di questa iconografia, ma occorre verificare ogni volta.
L’intenzione dell’artista delle catacombe non è quella di rappresentare un preciso momento storico biblico, bensì quella di richiamare alla memoria il fatto.
A questo scopo l’artista riuniva i vari elementi di una storia separati nello spazio e nel tempo per evocare, con la forza della sintesi, tutta la profondità di un avvenimento affinchè rimanesse ben presente al fruitore.
L’arte paleocristiana procede per ideogrammi non per fotogrammi: in un’unica scena sono evocativa i vari elementi di un’unica storia. Accade così che i fatti evocati in una stessa scena abbiano diversa provenienza specialmente quando è rappresentato un ciclo come nel sarcofago di Giona del Museo Lateranense: Giona gettato in mare dalla nave, raccolto dal mostro marino e poi da questi restituito, Giona sotto la pergola. Quest’ultima scena appare separata dalla scena di Giona sopra la nave a causa dell’inserimento di un motivo estraneo al ciclo: il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, miracolo che rimanda all’ Eucaristia la quale si inserisce come pane di vita, come pegno di risurrezione dentro il mistero di morte e di vita che Giona prefigura.
Nel cristianesimo l'uso di immagini religiose è piuttosto tardivo. Le origini ebraiche della religione cristiana hanno indubbiamente influenzato i primi cristiani, che tra l'altro, in buona parte, erano essi stessi ebrei “convertiti”. Nella Legge di Mosé, infatti, sia la fabbricazione che il culto di immagini religiose erano severamente vietati e considerati “idolatria”.
Ovviamente le conversioni più o meno forzate delle masse pagane al cristianesimo sono state determinanti nell'importare nella nuova religione le precedenti usanze, tra cui appunto l'uso di immagini e statue, usanze che sono state poi in qualche modo ufficializzate, con opportuni adattamenti teologici, da una chiesa sempre più attenta agli opportunismi propagandistici e alle esigenze devozionali piuttosto che all'ortodossia della dottrina.
Tuttavia, non possiamo liquidare troppo semplicisticamente l'avvento dell'iconografia sacra nel cristianesimo come una semplice importazione di usi pagani. Va detto che ciò è potuto avvenire perché nel cristianesimo primitivo si erano andate delineando le premesse teologiche affinché questa operazione potesse diventare possibile.
La svolta teologica fondamentale che aprirà la strada ad una progressiva paganizzazione del cristianesimo fu operata dal primo vero teologo della chiesa cristiana, ovvero san Paolo, detto appunto “apostolo delle genti” perché si dedicò prevalentemente alla conversione dei “gentili”, ovvero i non ebrei.
Fra i simboli utilizzati dai cristiani primitivi ricordiamo il pesce, perché in lingua greca può formare un acronimo con le parole “Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore”, il pellicano, perché nutre i piccoli stritolando i pesci che tiene a macerare nella sacca membranosa che pende dalla mandibola inferiore, dando così l'impressione che si trafigga il petto per farne uscire il sangue, il chirmon, una sorta di “P” e “X” sovrapposti, che corrispondono alle lettere greche “chi” e “ro”, prime due lettere di cristòs)
Seguendo la logica dei vangeli dovrebbe essere quantomeno possibile intravedere nella risurrezione, e non nella crocifissione, la rappresentazione più eminente e gloriosa del Cristo, che ogni buon cristiano dovrebbe accettare “per fede” come realmente accaduta, sebbene si tratti evidentemente di un mito che serviva a non disperdere il movimento di Gesù, anzi a poterlo rilanciare nonostante l'enorme delusione della condanna a morte, sopraggiunta proprio quando i discepoli si aspettavano l'acclamazione popolare di Gesù come Re dei giudei.
Acclamazione alla quale peraltro lo stesso Gesù credeva, dato che entrò in Gerusalemme sul dorso di un'asina, cosa che nella simbologia ebraica equivaleva a proclamarsi Re. Fu infatti in quella sola occasione che fu chiamato dai suoi sostenitori “figlio di Davide”, il più prestigioso Re di un passato glorioso in cui Israele non era ancora scisso in Giudea e Samaria.
Il vestito da Re, perlomeno, era già pronto: quando fu arrestato Gesù indossava una “tunica senza cuciture”, costosissimo abbigliamento riservato ai potenti, dettaglio che tra l'altro evidenzia l'esistenza di finanziatori che con ogni probabilità avevano il fine politico di suscitare una ribellione aperta contro gli odiati romani, anche strumentalizzando il carisma che si supponeva che Gesù esercitasse sulla gente. In realtà questo carisma non doveva essere così coinvolgente se è vero che Barabba ottenne più preferenze per ottenere l'amnistia annuale in occasione della Pasqua.
Queste considerazioni discendono dai recenti sviluppi della ricerca storico-critica e, come si noterà, spazzano via ogni calunnioso pregiudizio su concetti farneticanti in merito a presunte “colpe” dei giudei circa la condanna a morte di Gesù. Tale condanna da parte del procuratore romano appare quantomeno fondata, sul piano giuridico-legale dell'epoca. Nessuno Stato può tollerare un tentativo, per quanto grottesco, di sovvertire le istituzioni. Figuriamoci i romani.
Tornando alla risurrezione, nonostante il furore iconografico cattolico abbia prodotto migliaia di immagini devozionali, dal cuore di Gesù a quello di Maria, da Gesù bambino alla annunciazione di Maria, dalle sindoni alle madonne nere, curiosamente non abbiamo quasi mai immagini del Cristo risorto.
Una rappresentazione della risurrezione non avrebbe però avuto un grande impatto “pubblicitario”, perché in effetti il tema è troppo astratto per suscitare meccanismi di identificazione. Non ci si può identificare perché nessuno è mai risorto, né si tratta di un evento plausibile. Mentre la crocifissione, al contrario, ci ricorda quantomeno la sofferenza della vita umana, e quindi produce simpatia, solidarietà, immedesimazione.
Comunque, un simbolo di risurrezione sarebbe potuto essere l'emblema di un cristianesimo fondato sulla vita e sulla speranza, invece la storia ha voluto che prevalessero le croci, quali emblemi di un cristianesimo fondato sulla morte, sul senso di colpa, sui peccati da espiare.
Anche in campo iconografico, le scelte della Chiesa non sono state mai casuali. E' ovvio che in una logica finalizzata a strumentalizzare la devozione popolare per motivi di potere e privilegio, un Cristo crocifisso può rappresentare un utile monito, un modello di devota rassegnazione ad una sofferenza necessaria, da cui nemmeno colui che è definito come signore e salvatore ha potuto sottrarsi.
Anche i criteri che hanno guidato la definitiva rappresentazione grafica della croce, non potevano non tenere conto di esigenze propagandistiche. Ogni dettaglio devozionale deve riscuotere un consenso popolare basato su credenze già consolidate. Questa è la regola cattolica fondamentale. La stessa chiesa ammette di basarsi su due fonti di rivelazione: la sacra scrittura e la tradizione. Quindi la croce andava rappresentata in modo riconoscibile e gradito ai fedeli. Non doveva più sembrare uno strumento di tortura, ma quasi un altare sacrificale. Infatti, la croce “cristiana” deriva da quel simbolo che oggi è conosciuto come “croce celtica”, che pare risalga a circa 10.000 anni fa. Più che un simbolo, un vero archetipo.
Per la ricerca di un volto prototipale per Maria occorre attendere il concilio di Efeso (431), in cui si discusse del mistero dell'unione della divinità e dell'umanità di Cristo. La conclusione, ribadita dal concilio di Calcedonia (451), fu riassunta con la formula dell'unione di due nature, ambedue concorrenti in una persona e una ipostasi. Corollario di questa unione inscindibile delle due nature di Cristo era la "promozione" di Maria al ruolo di Madre di Dio ossia Theotokos e non solo di madre del corpo umano in cui il Verbo si era incarnato. Anche Maria poteva ora salire agli onori degli altari, senza che ciò sembrasse blasfemo.
Le conclusioni del concilio di Efeso e la convocazione del concilio di Calcedonia sono attribuite alla sintonia fra il papa e Elia Pulcheria, sorella maggiore dell'imperatore Teodosio II. Dopo il concilio di Efeso Pulcheria fece erigere in Costantinopoli tre chiese dedicate a Maria e a custodirne le reliquie: Santa Maria Odighitria, Santa Maria delle Blacherne e Santa Maria delle Calcopratie. La più importante icona era quella Odighitria, che secondo Teodoro il Lettore (che scrive nel 520) sarebbe stata trovata in Palestina nel 438 da Eudocia, moglie di Teodosio II e subito inviata a Costantinopoli. Nelle altre due chiese, invece, erano custoditi il mantello (Maphorion) della Vergine e la sua cintura (quella donata a San Tommaso, della quale ne esiste anche una a Prato). Le icone venerate in queste tre chiese furono prototipi imitati innumerevoli volte in cappelle e santuari di tutta la cristianità. Il mantello e la cintura della Vergine diventarono ingredienti importanti anche dell'iconografia occidentale.
Secondo Teodoro l'esecuzione della Odighitria era dovuta a San Luca, l'evangelista che parla più diffusamente dell'infanzia di Gesù, riferendo notizie che secondo la tradizione solo Maria poteva avergli raccontato. Si potrebbe pensare che l'evangelista sia stato trasformato anche in pittore a garanzia che l'icona era un vero ritratto (e perciò assicurava una presenza più "efficace"). Il colorito scuro della Madonna Odighitria (considerata una Madonna Nera) rende possibile anche una diversa interpretazione: l'attribuzione a San Luca non sarebbe sorta per indicare il pittore ma per caratterizzare il significato del quadro. Come conferma anche il colorito della carnagione della Vergine (il nero, infatti, è simbolo di dolore), una "Madonna di San Luca" sarebbe una madonna addolorata (cfr. il versetto 2, 35 del vangelo di Luca).
La tipologia della Odighitria fu molto utilizzata e diede luogo anche ad alcune varianti. Ad esempio nelle "Madonne della Passione" il Bambino sembra aver avuto un presentimento della Passione ed essersi rivolto alla madre per conforto. Anche la tipologia "Eleusa" (compassionevole), la tipologia di icona più diffusa, può ricordare la Odighitria; l'enfasi però è sull'atteggiamento di compianto della Vergine verso Gesù Bambino.
Notevolmente diversa, invece, è la tipologia chiamata Platytera: la theotokos è in posizione frontale con le mani alzate in segno di preghiera e di accettazione; sul petto è dipinto Gesù Bambino all'interno di un'aureola circolare. L'icona rappresenta la Vergine Maria durante l'Annunciazione nel momento in cui risponde "Sia fatto secondo le tue parole" (Luca, 1, 38), il momento del concepimento di Gesù. Il Bambino non è rappresentato come un feto ma con colori e simboli che ricordano la sua gloria divina e/o entrambe le nature e il suo ruolo di maestro. Questo tipo di icona è detto poeticamente "Platytera"; accogliendo, infatti, nel suo grembo il Creatore dell'Universo Maria è diventata "Platytera ton ouranon": "Più ampia dei cieli". La Platytera è un motivo iconografico riprodotto usualmente sul catino dell'abside delle chiese ortodosse.
Le più antiche rappresentazioni del crocifisso sono su un pannello nella Basilica di Santa Sabina a Roma e su una scatola d'avorio del 420-430, conservata al British Museum di Londra. Nel V secolo comparirà nei mosaici ravennati e nell'abside delle basiliche paleocristiane la croce gemmata, che allude a Cristo in gloria. Molto frequente è anche l'immagine dell'Albero della Vita (ad esempio nella basilica di San Clemente a Roma).
Tutte queste raffigurazioni sono successive all'abolizione della pena dalla croce da parte dell'imperatore Teodosio il Grande. Prima di allora, infatti, l'immagine del Messia crocefisso poteva più facilmente intimorire i neofiti, suscitare il disprezzo dei pagani e scandalizzare gli ebrei (Corinti 1-23). La rappresentazione inoltre del corpo di Cristo appeso in croce era controversa anche a motivo delle dispute monofisite. Non sorprende, quindi, che anche nell'immagine di Santa Sabina solo le mani sembrino inchiodate.
Occorre attendere il concilio in Trullo (696) perché la Chiesa ordini di rappresentare il Cristo nella sua umanità sofferente. La raffigurazione nelle grandi croci dell'arte romanica comparirà secondo una duplice tipologia: il Christus Triumphans, cioè trionfante sulla morte, come in Santa Sabina e il Christus patiens, sofferente, prediletto dai francescani.
Sin dalla fine del IV secolo, quando il paganesimo cessò di essere un pericolo reale, l'arte sacra come strumento didattico ebbe eloquenti difensori fra i padri della chiesa nella persona di san Giovanni Crisostomo, san Gregorio di Nissa, san Cirillo di Alessandria e soprattutto san Basilio. La rappresentazione a fini di culto del volto di Gesù e di Maria, invece, pose qualche problema e richiese l'elaborazione di una teologia delle icone. Già Eusebio di Cesarea aveva rifiutato a Costantino di fare ricerche per trovare un'immagine di Cristo, dichiarando che è impossibile rappresentare l'umanità divinizzata di Gesù Cristo, perché essa è inafferrabile (à-leptos), incomprensibile. Qualsiasi rappresentazione separerebbe l'umanità dal divino. Questa argomentazione sarà ripresa dagli iconoclasti.
La diffusione delle icone sotto la spinta dell'esempio imperiale impose alla chiesa di elaborare una teologia in immagini, che trasformasse l'icona in una illustrazione del mistero cristologico. Non è, quindi, casuale il fatto che in greco e in russo una icona non venga "dipinta", ma "scritta". Molti aspetti formali di questa dimensione teologica sono evidenti anche al profano che non ne conosce il significato. Si pensi ad esempio all'intreccio delle dita del Cristo Pantocratore, che sono un "memento" della trinità di Dio e della doppia natura - divina e umana - del Cristo. Analogamente il braccio della madonna odighitria è in posizione "sagittale", punta cioè a Gesù come una freccia indicatrice. In un solo gesto sono riassunti i rapporti fra la creatura Maria e la divinità: Maria mostra la strada per giungere a Gesù (questa è anche una delle molte etimologie della parola "odighitria", da "odos", in greco "strada"). Altrettanto sorprendente, per noi moderni abituati a rappresentazioni naturalistiche, è l'aspetto adulto di Gesù Bambino, talvolta quasi raggrinzito. Si tratta, probabilmente, di una allusione biblica a Daniele 7 dove è descritto un puer-senex, fanciullo-vecchio.
Se obiettivo dell'icona è rappresentare una verità di fede, i dipinti non possono essere la meditazione individuale di un artista; pertanto ogni icona è un'interpretazione teologicamente fedele di un prototipo, senza nulla togliere al livello artistico e alla ricerca di nuove forme. L'artista non si pone il problema della somiglianza con la natura, nonostante l'erudizione e l'interesse dei bizantini per le scienze, perché l'immagine deve rappresentare verità eterne. Il centro della rappresentazione diventa il volto, luogo della presenza dello spirito. La carnagione non è più rosea, come nell'antichità, ha toni caldi tendenti all'ocra: l'artista rifiuta di creare l'illusione di una presenza nello spazio naturale, perché la rappresentazione vuole sollecitare una evocazione interiore. L'attenzione è concentrata sullo sguardo, perché secondo Giovanni Mauropode un buon artista deve rappresentare anche l'anima.
L'unica vera costante della storia del cristianesimo è l'incredibile capacità della chiesa di impadronirsi e strumentalizzare ogni singolo elemento delle vicende umane: gli archetipi, i temi di altre religioni, le tradizioni popolari, le esigenze psicologiche, le regressioni infantili, le tendenze superstiziose, la paura della malattia e della morte, le ricorrenze del calendario, i miti ancestrali, i significati di equinozi e solstizi, le consuetudini, i territori, gli spazi visivi, gli spazi acustici, persino il tempo, scandito dalle campane e dalle messe vespertine, nonché le fasi della vita umana: la nascita, l'infanzia, l'adolescenza, il matrimonio, la fase terminale della vita, il funerale, la sepoltura dei defunti.
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