sabato 21 novembre 2015

il Tifo dei Genitori per i Propri Figli



Sfogare le proprie frustrazioni sui figli, trattati come alter ego in grado di restituire l’immagine ideale che non si è riusciti a raggiungere da giovani, contribuisce al capovolgimento della realtà. È profondamente contro natura oltreché immorale caricare di responsabilità un bambino di dieci anni. Che il calcio, almeno in ambito professionistico, sia soltanto una questione di rispetto e fair play è ormai una banalità assodata. Siamo i primi a inveire contro l’arbitro o chiunque ci capiti sotto tiro se qualcuno osa mettere in discussione un principio che riteniamo intoccabile. Siamo i primi a professare eterno amore alla squadra per la quale facciamo il tifo, ma ci sentiamo incompleti se non lo bilanciamo con la necessaria dose di odio. Tornano alle mente striscioni deplorevoli, inneggianti a tragedie del passato, irrimediabilmente sventolati nella loro totale crudeltà davanti agli occhi di un bambino, che non sa e chiede. Invitiamo la negazione della civiltà – impossibile da estirpare perché va a braccetto con l’uomo – a non presentarsi prima del dovuto. L’inalienabile diritto al divertimento deve fungere da prerogativa a discapito della competizione, i settori giovanili sono centri di formazione che hanno come obiettivo la crescita – non solo atletica – della persona. L’ambizione dell’adulto non può agire da scudo contro il momento dell’aggregazione, il bambino va lasciato libero di giocare, di sbagliare, di farsi un’idea personale su ciò che gli ruota intorno senza dover passare dallo stato d’animo del genitore.

I bambini dovrebbero essere lasciati liberi di giocare senza alcuna pressione, con un numero assai esiguo di norme delle quali tenere conto:  rispettare gli altri (compagni, avversari, allenatori, arbitri);  rispettare le regole;  divertirsi. Al riguardo, anche il regolamento dei campionati non è affatto casuale: fino alla categoria Esordienti, undici anni di età, c’è l’obbligo di far giocare tutti i bambini, bravi o scarsi che siano, e non ci sono classifiche ufficiali per determinare chi è forte e chi lo è di meno.

Questo non basta a frenare le ambizioni degli adulti. Ci sono genitori che se la prendono furiosamente con l’allenatore, colpevole di non comprendere quanto sia abile il loro pargolo; altri che offendono e insultano arbitri-ragazzini; altri ancora che scatenano baruffe e perfino risse con papà e mamme avversari. I ragazzi, quasi sempre molto più ragionevoli e maturi, si vergognano per loro. E’ il volto triste del calcio giovanile.

In un campo della periferia romana, accanto alla porta d’ingresso, un dirigente esasperato ha appeso un cartello grande così, scritto con un bel pennarello blu: “Chi ha un figlio campione è pregato di portarlo a giocare da un’altra parte”. Chissà se papà e mamme dei fuoriclasse del futuro lo leggono e, soprattutto, lo capiscono.




Ecco cosa scrive la Figc: “L’approccio educativo del mondo del calcio è troppo spesso uno specchio attraverso cui si riflettono comportamenti ed atteggiamenti degli adulti. Quindi, competitività esasperata, esclusione dei più deboli e dei meno dotati, accentuazione dell’aspetto fisico ed agonistico. Questa Carta, tra i suoi diversi principi, ci ricorda invece quanto sia importante assumere il punto di vista dei bambini. Non solo prestazioni e ansia di vittoria, ma divertimento, partecipazione, festa. E il calcio è il tipico gioco di squadra che può anche far sviluppare il confronto, la cooperazione, lo scambio” .

Chi iscrive il proprio figlio a una scuola di calcio pensando che sia come un qualsiasi corso di nuoto, tennis o qualunque altro sport si rende conto ben presto che è tutta un’altra storia.
I bambini in campo giocano. I genitori ogni sabato e a volte pure la domenica vivono le partite dei figli come fossero squadre di Serie A.  Incitano i propri figli come fossero macchine da guerra. Ognuno dei papà  pensa di avere in campo il talento (inespresso per molteplici motivi…) Educazione, rispetto sportività non sono la regola.  E non sul campo, dove addirittura fino a una certa età non c’è neppure l’arbitro perché i bambini devono fare da soli. Paradossalmente proprio tra coloro che insegnano con il loro comportamento.

I genitori di squadre opposte si guardano in cagnesco (spesso),  Le urla rimbalzano sui piccoli giocatori che:  non possono sbagliare, perdere la palla (peggio) non fare gol portando la vittoria alla loro squadretta.

Andate a vedere un torneo under 10 di tennis. Fanno spavento. Sono alti poco più della rete e tirano certe botte impressionanti, per potenza e precisione. Se di là ci fosse Peppa Pig la vorrebbero morta. Sono prodigiosi in modo tenero e sconcertante. Non sorridono mai. Si allenano fino a sedici ore alla settimana, in quarta o quinta elementare, per quella partita del weekend. E se sbagliano un colpo, spesso vedrete questi Federer e Sharapova miniaturizzati guardare subito papà o mamma. Seduti su quelle tribune dove tanti genitori fanno molto più spavento di loro. "La mia squadra ideale è una squadra di orfani" è la vecchia battuta che gira tra allenatori. Un paradosso, ovviamente, come sono paradossali i casi di genitori aguzzini, disposti a tutto pur di vedere un figlio campione, che finiscono sui giornali. Ma la normalità che non fa più notizia è fatta di risse a bordocampo alle partite dei ragazzini, arbitri insultati e aggrediti, allenatori contestati. Ogni maledetta domenica, e il sabato pure. Qualsiasi istruttore giovanile, di qualsiasi sport, sa che una parte importante e difficile del suo lavoro è "allenare" i genitori.

La linea di campo tra gioco e stress per il bambino è sottile, quanto quella tra il buon genitore che si limita a far capire l'importanza formativa della disciplina e dell'impegno e quello che invece invade, soffoca, s'arrabbia, giustifica, pretende. "L'influenza negativa della famiglia è il nocciolo del problema" dice il pedagogo Emanuele Isidori, docente di etica e filosofia dello sport. "Troppi genitori proiettano sui loro figli le proprie frustrazioni e aspettative, caricandoli di ansie deleterie. Da una nostra ricerca del 2009 risulta che tra gli 8 e i 12 anni la maggioranza dei bambini pratica sport per vincere, come principale motivazione: questo è grave". Il caso Agassi ha fatto letteratura: il suo best seller Open ha alzato un velo sulle torture psicologiche subite dal padre. Lui però almeno è diventato Agassi. Uno su quanti? Nel calcio, in serie A arriva uno su cinquemila. "I genitori più pericolosi e invadenti sono quelli che non si sentono realizzati e hanno meno cose da fare nella vita" sostiene Isabella Gasperini, psicoterapeuta dell'età evolutiva che collabora con varie squadre di calcio. "E in dieci anni la situazione è peggiorata di pari passo con l'aberrazione del calcio professionistico. Senti questi genitori parlare delle partite dei figli come se fosse serie A: la tattica, il mister... Purtroppo avvertire che questi comportamenti fanno solo danni è inutile: sono meccanismi involontari. Quello che cerco di far capire è che i bisogni dei bambini sono diversi dai loro. I bambini accettano l'errore e il fatto che un altro sia più bravo come una cosa naturale, e invece li vedi costretti a impegnarsi per realizzare i sogni dei genitori dietro la rete secondo un loro tacito e insano accordo. Vanno invece lasciati liberi: di sbagliare, di creare, di calciare come gli viene, di sdraiarsi a guardare il cielo se non hanno voglia di correre, di seguire l'istinto. Liberi anche di assumere le proprie responsabilità e di cavarsela da soli, se un compagno gli ha messo le scarpette sotto la doccia ".

Giordano Consolini, responsabile del settore giovanile della Virtus Bologna, uno dei più titolati vivai del basket italiano, osserva: "Ci sono famiglie che combinano disastri. Un esempio: siamo andati a giocare le finali nazionali under 17 con due ragazzi, amici d'infanzia, che non si parlavano più e non si passavano neanche più la palla per questioni di invidie tra famiglie. Roba di convocazioni in Nazionale e premi che uno aveva ricevuto e l'altro no. I due ragazzi li ho messi in camera assieme, ci ho parlato, ho ottenuto che almeno si rispettassero in campo e abbiamo vinto quello scudetto. Ma con le famiglie i risultati sono stati scarsi, non hanno cambiato atteggiamento. Figurarsi quando subentrano anche i procuratori. Purtroppo molti genitori provocano la cosiddetta "sindrome da campione": il ragazzo viene sopravvalutato, si sente già arrivato e si blocca il processo di crescita. Considera che sia tutto scontato e dovuto, pensa solo che gli basti far passare il tempo e andrà nella Nba. È come se entrasse in una realtà virtuale e non considera più l'opzione dell'insuccesso: se arriva una sconfitta la vive come un fattore imprevedibile, non trova una via d'uscita, resta disarmato perché è stato programmato solo per vincere. Ed è difficile a quel punto farsi ascoltare. Perché è più comodo dar retta a chi ti regala un alibi dando la colpa a un altro: all'ambiente, al tecnico, ai compagni, agli arbitri. Il talento non basta per diventare giocatori".

La mala educación tocca l'apoteosi intorno al campo da calcio, dove rispetto ad altri sport il miraggio di ricchezza è più abbacinante. "Quando i genitori vedono il bambino solo come una possibile fonte di guadagno, è finita - dice Devis Mangia, ex ct dell'Under 21 - . Tutti pensano di avere il campione in casa. Quando un ragazzino si comporta male costa meno fatica etichettarlo come piantagrane e abbandonarlo al suo destino, mentre parlandoci si scoprono spesso situazioni famigliari alle spalle che spiegano gli atteggiamenti deviati. Ma, al contrario di quanto si possa credere, non è detto che subisca maggiori pressioni chi viene da contesti culturali e sociali inferiori, dove un contratto da professionista potrebbe rappresentare una svolta per tutta la famiglia". Lo conferma anche Roberto Meneschincheri, responsabile dell'attività agonistica under 16 dello storico Tennis Club Parioli di Roma, il circolo che ha sfornato Pietrangeli, Panatta e Barazzutti: ultimo titolo vinto, il campionato italiano under 12 femminile. "È questione di istinto e carattere, non di denaro o laurea: i genitori troppo pressanti che chiedono ai figli solo il risultato sono molto diffusi. Col dialogo di solito si riesce a ottenere collaborazione, a far capire che non va data troppa importanza alla partita e a evitare così interferenze o intemperanze durante il gioco".

Molte società fissano un decalogo dell'ovvio. Sdrammatizzate, incoraggiate, esaltate i risultati positivi e alleggerite le sconfitte, non entrate in campo e negli spogliatoi, lasciate che la borsa se la portino da soli, non discutete con l'allenatore di schemi e ruoli, rispettate gli arbitri, non parlate male al ragazzo del suo allenatore e dei suoi compagni. Eccetera. Ma il pedagogo Isidori non assolve nemmeno le società: "Dicono pensate a divertirvi ma il messaggio che di fatto viene trasmesso implicitamente dal sistema è un altro: conta solo vincere. Accade perché è completamente sbagliato il modello del Coni: le federazioni per avere soldi devono portare risultati. In Italia manca educazione sportiva perché non esiste lo sport per tutti: gratuito".





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