La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia: alla scuola Diaz, nel 2001, fu tortura.
Il “waterboarding” - l’induzione di un senso di soffocamento provocato dall’immissione di acqua e sale in bocca - si chiamava ai tempi “l’algerina”, perché così facevano i soldati francesi durante l’occupazione d’Algeria.
Il waterboarding nelle questure? Cosa sia lo racconta un ex brigatista: «Venni spogliato, mi caricarono su un tavolo e mi legarono alle quattro estremità con le spalle e la testa fuori dal tavolo, accesero la radio con il massimo del volume e cominciò il “trattamento”. Un maiale si sedette sulla pancia, un altro mi sollevò la testa tenendomi il naso otturato, e un altro mi infilò il tubo dell’acqua in bocca. L’istinto fu quello di agitarti nel tentativo di prendere aria, ma riuscivo solo a ingoiare acqua. Nessuno parlava tranne un agente che dava ordini, decideva quando smettere e quando ricominciare».
«NON SENTI PIÙ IL SAPORE». Gli somministrarono il sale, dunque, «ma tu non senti più il sapore, dopo un po' che tieni la testa penzoloni i muscoli cominciano a farti male e a ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne, dai muscoli, dai nervi».
Il “dottore” vigilava che la situazione non sfuggesse di mano. Leggenda? No, che il brigatista fu torturato con il waterboarding lo hanno scritto i giudici del tribunale di Perugia nella sentenza del 26 novembre 2013.
Che ha accolto l’istanza di revisione del processo che vedeva lo ha condannato, nel 1978, anche per calunnia - così fu considerata la sua denuncia di aver subito tortura presso il commissariato di Castro Pretorio di Roma.
Nel ricostruire il fatto, i giudici di Perugia si sono serviti delle interviste rilasciate negli anni da un commissario che oggi è in pensione - prima a Matteo Indice («Così ai tempi delle Br dirigevo i torturatori», Il Secolo XIX, 2007), poi a Nicola De Rao (Colpo al cuore. Dai leniti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling&Kupfler, 2011).
Racconta i giorni della vergogna Salvatore Genova a Pier Vittorio Buffa (il giornalista che nel 1982 fu arrestato il giorno dopo che ebbe osato parlare per primo di tortura), su l’Espresso del 2012: «Il Capo dell’Ucigos, De Francisci, ci disse che la questione era delicata. E ci diede il via a usare le maniere forti. Ci guardava a uno a uno e con la mano destra indicava verso il soffitto: 'Ordini che vengono dall’alto', disse, 'quindi, non preoccupatevi, se restate con la camicia incagliata, sarete coperti, faremo quadrato'».E racconta che per il rapimento da parte delle Br, nel 1981, del generale statunitense John Lee Dozier, la squadra tornò in azione.
Presero due brigatisti: Ruggero Volinia e la sua compagna, Elisabetta Arcangeli.
Li misero in due stanze vicine.
Lei in piedi, seminuda, le misero il manganello tra le cosce. Le tirarono i capezzoli con le pinze. Urla. Volinia, nella stanza accanto, venne anche lui picchiato, «però», spiega Genova, «il soggetto principale era la Arcangeli, perché si cercava ovviamente con questa vicinanza di creare un crollo psicologico, in caso ci fosse stata una situazione affettiva forte tra i due».
E così fu. Volinia parlò. Chiude Genova: «Oggi, guardandomi indietro, vedo con chiarezza che ho sbagliato, che non avrei dovuto commettere quelle cose, né consentirle. Non dovevo farlo né come uomo né come poliziotto. L'esperienza mi ha insegnato che avremmo potuto ottenere gli stessi risultati anche senza le violenze e la squadretta dell'Ave Maria (era il soprannome dei fidati di Ciocia)»
La storia della “squadretta” di Asti è il simbolo di un sistema fuori controllo democratico, che coinvolge agenti, medici e direzione.
A denunciare le torture, nel 2004, due detenuti: Claudio Renne e Andrea Cirino.
Cinque gli agenti della penitenziaria imputati.
Capi d’accusa: maltrattamenti aggravati, abuso di potere, lesioni.
Renne, si legge negli atti, «veniva spogliato completamente» e condotto in isolamento, in una cella «priva di vetri alle finestre, di materasso per il letto, di lavandino e di sedie o sgabelli, ove veniva lasciato completamente nudo (era dicembre)».
Lì lo «lasciavano per due mesi», la prima settimana solo a pane e acqua e lo «picchiavano ripetutamente e anche più volte il giorno, fino a cagionargli lesioni personali».
Una delle guardie gli ha «fatto lo scalpo», vale a dire che gli ha strappato il codino sino al cuoio capelluto. Anche Cirino, l’altra persona detenuta, «lo picchiavano con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo, schiacciandogli anche la testa con i piedi», trattamento cui si aggiunge la «deprivazione da sonno».
Picchiare? «Una prassi consolidata» ad Asti, testimonia un agente.
«I detenuti aggressivi o che facevano casino» venivano portati in isolamento, sul «lato A, quello dove la telecamera non è funzionante».
E si chiamavano sempre gli stessi. Sapevano i medici, prosegue l’agente: «La maggior parte dei medici ci hanno sempre coperto. Loro accettavano le nostre giustificazioni senza chiedere spiegazioni».
E tutto veniva refertato come “fatto accidentale”.
Sapeva il direttore, che scoraggiava un’assistente dal fare una relazione di servizio. Ma Cirino, a un certo punto si impiccò. Con i lacci delle scarpe. Ecco come commentavano, intercettati, due agenti: «C’è una grandissima novità: l’amico nostro... Cirino... è quasi morto... è in coma... si è impiccato».
Il giudice mise insieme le prove: «I fatti in esame possono agevolmente essere qualificati come ‘tortura’» e riprese le parole della Convenzione Onu del 1984 ratificata con legge dall’Italia, ma specificando: «La Repubblica italiana non ha mai dato attuazione a tale convenzione».
E poiché il reato di tortura non è stato introdotto, non è prevista «alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che costituiscono il concetto di ‘tortura’». Gli altri reati erano inadeguati, o era intervenuta la prescrizione. Tutti assolti.
Negli anni della lotta armata (e delle stragi di mafia) le isole carcerarie di Pianosa e dell’Asinara sono stati teatri di tortura.
È giudizialmente dimostrato. Racconta Giuseppe Labita, che vince alla Corte Europea contro lo Stato italiano, che ci furono colpi ai testicoli e obbligo di passare tra due fila di poliziotti che pestavano con i manganelli.
Conferma Alessandro Margara, allora presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, poi capo del Dap, che in sede europea dichiarò: «I fatti accaduti nelle prigioni di Pianosa erano stati voluti o quanto meno tollerati dal governo in carica. In particolare i trasferimenti erano effettuati secondo modalità volte a intimorire i detenuti stessi. La famigerata sezione Agrippa era stata gestita ricorrendo ad agenti provenienti da altre regioni (ossia reparti speciali) che disponevano di carta bianca. Il tutto corrispondeva a un disegno preciso».
Era il 2003 quando al carcere minorile di Bari una “squadretta' di nove agenti, provenienti da carceri per adulti, decise di governare l’istituto con la violenza.
E stando alle ricostruzioni del magistrato, torturavano i ragazzi.
Nei racconti degli operatori e delle vittime: «Ragazzini denudati e pestati in cella», fino a «far uscire loro il sangue dalle orecchie» o «spezzargli tre denti».
Uno dei ragazzi lasciato a dormire nudo, in una stanza senza materasso.
Che si impiccò una settimana prima del processo che vedeva imputati gli agenti. Tutti assolti, per intervenuta prescrizione.
Marcello Lonzi è l'emblema delle “torture invisibili”.
Trovato morto nel carcere livornese “Le Sughere” nel Luglio del 2003, è ancora oggi un caso aperto - grazie alla sola determinazione della madre, Maria Ciuffi, appoggiata dai Radicali.Di contro ad altre situazioni, Ciuffi non dispone delle risorse adeguate che richiedono processi così lunghi, che hanno bisogno di investigazioni e avvocati costosi.
Molti di questi casi sono stati documentati da Antigone (che spesso si costituisce parte civile) in Le torture invisibili e nel libro di Luca Cardinalini, Impìccati (DeriveApprodi).
Federico Aldrovandi non è stato pestato a morte al buio di una cella come Stefano Cucchi (il caso più famoso, con l'assoluzione di medici, infermieri e agenti in Appello), ma per le strade di Ferrara.
Giuseppe Uva nella cella di un comando.
Sono molti i casi che, dicono gli addetti ai lavori, dimostrano che i momenti più pericolosi sono il fermo e la fase successiva all’arresto.
Lì, il controllo è ancora minore che nelle carceri. E se la situazione degenera polizia e carabinieri fanno quadrato.
Lo “spirito di corpo”, infatti, racconta di riflesso la storia di anni di inazione parlamentare (il primo disegno legge fu presentato nel 1989) e di un potere politico che subisce il condizionamento della polizia. Perché?
Il problema: la politica non osa toccare la polizia.
La tortura è tale se a infliggere dolore (intenzionalmente) è un pubblico ufficiale.
E il problema italiano è che la politica non osa toccare la polizia. Ma non solo.
Chi sostiene che i reati del codice penale siano sufficienti è smentito dai fatti.
«Quando pm e giudici sono impegnati in processi che hanno quali imputati esponenti delle forze dell’ordine per fatti di violenza nei confronti di persone in stato di custodia legale, a volte riemerge dal fondo il processo di immedesimazione. Poliziotto e Stato si sentono la stessa cosa in quanto il primo assicura la ragion di vita del secondo. Il giudice se ne fa spesso carico, così accade che la entificazione del poliziotto sia fatta propria anche dal magistrato, nel nome della sovranità intangibile e illimitata del potere punitivo».
«Esiste un diritto umano alla libertà, non un diritto umano alla sicurezza».
Così si è espressa, per tre volte, la Corte costituzionale tedesca nello scegliere tra queste due istanze tra loro contrapposte.
In linea con la produzione giuridica internazionale, che sulla “natura” della tortura dà indicazioni chiare nel riprendere il filo rosso che lega le varie convenzioni: «La tortura è sempre il mezzo per il conseguimento di un altro fine che risiede nelle prerogative del potere politico». «In entrambi i casi (sicurezza, giustizia) l’uomo torturato è degradato a mezzo».Lo Stato di diritto deve fondarsi sul concetto di dignità umana che veda l’uomo come fine e non tolleri alcuna “eccezione” o legislazione emergenziale.
Questo afferma, con sempre più forza, il diritto internazionale. L’introduzione di un codice identificativo per le forze di polizia, insistono le Ong, consentirebbe agli agenti che fanno bene il loro lavoro di difendersi e rivendicare la propria correttezza e professionalità.
È la loro tutela. E si tratta spesso di quegli stessi poliziotti che hanno consentito che le ricostruzioni qui accennate venissero alla luce.
Gli episodi di brutalità che da tempo si susseguono nelle carceri italiane e fuori di esse, turbano non poco la pubblica opinione. Manifesto è lo sdegno dei comuni cittadini, e talvolta delle istituzioni, quando tutori dell’ordine eccedono in violenza – con conseguenze talvolta funeste – nel fronteggiare individui turbolenti o ritenuti tali. Ai casi noti, tra cui la “macelleria messicana” alla scuola Diaz di Genova, la morte di Stefano Cucchi mentre si trovava in stato di arresto, quella di Federico Aldrovandi, si assommano i tanti decessi in carcere “mai chiariti” (o che forse sarebbe stato meglio non chiarire); uno dei motivi per cui Amnesty International relega l’Italia ad un livello di rispetto dei diritti umani poco o punto lusinghiero. Esistono poi casi verso i quali l’opinione pubblica italiana ha sempre manifestato, salvo poche eccezioni, incredulità o totale disinteresse. Fatti che riportano alle torture cui furono sottoposti nei luoghi di detenzione della provincia di Bolzano gli attivisti sudtirolesi degli anni ‘60 o coloro che erano sospettati di perorarne la causa, alle lesioni permanenti dovute alle violenze subite, ai decessi in carcere la cui causa si rifà alla formula di rito sopra menzionata.
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