mercoledì 14 luglio 2010

Il potere eversivo di chi ride e fa ridere

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risata


Lo studioso John Morreall scrive un libro sulla valenza filosofica della comicità


Cambia a seconda degli usi e delle culture, varia in base all’età degli individui e ai periodi storici. C’è chi sostiene che far ridere l’altro sia una delle chiavi fondamentali per tenerlo in pugno, nelle dinamiche di potere come in quelle sentimentali, sicuramente il sorriso è uno dei primi riflessi incondizionati (e sul quale non si sa granché) dei neonati e i bambini imparano a ridere ben prima che a parlare. «Quella del comico è una tematica complessa, a capirlo si è risolto il problema dell'uomo sulla terra» ebbe a scrivere Umberto Eco, a ribadire l’ampiezza del campo d’indagine legato al tema della comicità.
Da quando la parola ha iniziato a essere messa per iscritto, i sommi pensatori e filosofi di tutti i tempi si sono passati il testimone della riflessione sulla questione. Che ancora oggi faccia pensare, lo dimostra la recentissima pubblicazione di Comic Relief. A comprehensive philosophy of humor, volume non ancora tradotto in italiano di John Morreall, docente di scienze religiose presso l’università statunitense College of William and Mary, in Virginia. Lo studioso non è nuovo al tema dell’umorismo, di cui si occupa da oltre 25 anni, e nell’ultimo libro, tracciando una panoramica della sua centralità nel sistema di pensiero di molti grandi, cerca di evidenziarne l’importanza in ambito filosofico, nel tentativo di spogliarlo dalle vesti di Cenerentola che troppo spesso gli vengono appiccicate addosso.
Senza ragione certamente, dal momento che il meccanismo umoristico di sciocco e banale non ha nulla. Anzi, gli antichi ne intuirono presto il potere eversivo, festeggiandolo, per esempio, nel carnevale, che celebra una sorta di “mondo alla rovescia”, in cui si dà la licenza di violare la regola e la gerarchia dei rapporti tradizionali tra gli individui, in una festa che una volta l’anno in pratica codifica l’infrazione della norma .
O, ancora, ne Il nome della rosa, acuto spaccato sulla realtà monastica medievale, in cui Umberto Eco costruisce un giallo attorno al mistero del secondo libro della Poetica di Aristotele, per il quale viene perpetrata una catena di omicidi. Qualcuno vuole a tutti i costi impedire la lettura del volume, ritenendo che la presentazione della disposizione al riso indotta dal genere comico come una forza buona che vi si legge sia del tutto deleteria, perché il riso ha il sacrilego potere di distruggere il principio di autorità e sacralità del dogma.
Teorie scientifiche all’ultimo grido mettono addirittura a punto vere e proprie riso-terapie, dimostrando anche i poteri benefici dell’atto del ridere: abbassa la pressione, riduce lo stress, stimola l’appetito. E i medici della Loma Linda University hanno provato che pazienti a rischio diabete sottoposti a una “cura di risate” consistente in film o sketch comici somministrati più volte al giorno, migliorano decisamente l’equilibrio ormonale. Milan Kundera, addirittura, scrive della sua necessità di tenere«a debita distanza» gli agelasti. Ovvero, come lui stesso spiega, «un neologismo di origine greca che Rabelais ha creato per indicare coloro che non sanno ridere», «persone non vivono in pace con la comicità. Non gliene voglio: in loro l’agelastia è profondamente radicata e non possono farci niente». E con parole che non si possono parafrasare, lo scrittore spiega alla perfezione la sfida racchiusa nella comicità: «Ogni concetto estetico (e l’agelastia ne è uno) apre una problematica infinita. Coloro che un tempo lanciavano anatemi ideologici (teologici) contro Rabelais vi erano spinti da qualcosa di ancora più profondo della fedeltà a un dogma astratto. Ciò che li esasperava era un disaccordo estetico: il disaccordo viscerale nei confronti della non-serietà; l’indignazione contro lo scandalo di un riso fuori luogo. Se infatti gli agelasti tendono a vedere in ogni scherzo un sacrilegio è perché, in effetti, ogni scherzo è un sacrilegio.
C’è un’incompatibilità insormontabile tra il comico e il sacro, e ci si può solo domandare dove il sacro cominci o finisca. È forse confinato unicamente al Tempio? O il suo territorio si estende più in là, annette anche ciò che chiamiamo i grandi valori laici come la maternità, l’amore, il patriottismo, la dignità umana? Coloro per i quali la vita è interamente e senza restrizioni sacra reagiscono con irritazione, aperta o celata, ad un qualunque scherzo, perché in qualunque scherzo si rivela il comico, che è in sé un oltraggio al carattere sacro della vita. Non si comprenderà mai il comico se non si comprendono gli agelasti. La loro esistenza dà al comico la pienezza della sua dimensione, ne mostra il carattere di sfida, di rischio, svela la sua essenza drammatica».

DI : di Cecilia Moretti
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