lunedì 28 settembre 2015

AMICO CANE



La storia d’amicizia tra cane e uomo si perde nella notte dei tempi, ma le innumerevoli conseguenze di questa “unione” sono, oggi più che mai, sotto i nostri occhi.
Il verbo“addomesticare”,di derivazione latina, nasce da “domesticus” che significa “appartenente alla casa”. La parola stessa ci suggerisce, quindi, che “addomesticare un animale”, vuol dire qualcosa di più che “renderlo sottomesso ai nostri bisogni”, o “assoggettarlo alle nostre volontà”, bensì indica la possibilità di farlo entrare nella casa e quindi nei luoghi prettamente umani. E’ da notare che usualmente, questo verbo viene, infatti, usato solo per razze quali cane e gatto, quelle con il quale l’uomo, negli anni, ha istaurato un rapporto tipicamente affettivo e non solo utilitaristico.

I primi tentativi d’addomesticamento del cane sembra risalgano probabilmente ad almeno 12000 anni fa, alla fine del Pleistocene. Le prime tracce pittoriche, rinvenute in una caverna in Iraq, raffiguranti un cane, sembrano confermare la datazione: nel Neozoico, è quindi lecito pensare che, l’antenato dell’uomo e quello del cane, condividessero territori e, probabilmente, cibo e spazi.



Molte erano le similitudini che accomunavano i due mammiferi:

le loro strutture sociali erano simili, gli uomini si radunavano in tribù o gruppi, i cani in branchi; così come comuni erano alcune loro modalità di comunicazione, quali le espressioni mimiche e gli atteggiamenti di posizione del corpo; sovente entrambi attaccavano prede più grandi loro, impresa questa, che richiedeva uno sforzo di squadra e la divisione dei compiti tra i membri del gruppo.

Quando, nel tardo Paleolitico e all’inizio del Mesolitico, i ghiacci cominciarono a ritirarsi, cani e uomini seguirono la dispersione delle mandrie di grossi animali; attirati dalle carogne cacciate, i cani possono essersi avvicinati agli agglomerati degli uomini, i quali li uccisero per cibarsene; i cuccioli, ormai orfani, possono essere stati presi ed addomesticati, per farne, magari, compagni di caccia.

Dalla sua probabile origine, nel sud-est asiatico, l’addomesticamento del cane si diffuse, ciò spiegherebbe la comparsa, del tutto improvvisa, di cani in Europa ed in Africa, arrivati con le migrazioni umane ed impiantati sul territorio al seguito dei “padroni”.

Introdotto in nuovi territori, il cane si è accoppiato con gli esemplari selvatici autoctoni dando così vita ai diversi ceppi che, negli anni, hanno prodotto le razze più antiche, quali i levrieri, i cani da pastore, i bracchi ed i molossi.

Numerosi studi cinofili, che tengono conto della morfologia delle razze odierne, ipotizzano che, il primo cane con cui l’uomo si è trovato a relazionarsi, non era, come è credenza comune, un lupoide, bensì un molossoide. I resti fossili delle ossa cranio mandibolari degli esemplari ritrovati, dimostrano chiaramente che ci si trovava di fronte ad un cane con muso corto, tozzo con mascella forte e quadrata, segni, questi, distintivi del cane molosso e non certo del lupo selvatico. Il tutto trova riscontro nelle rappresentazioni iconografiche che presentano cani di grande mole, con collo e torace possente e corporatura robusta. Da questi, grazie agli incroci fortuiti e forzati, sono derivate le numerose razze odierne. Da sottolineare che, un sicuro discendente di quegli esemplari tanto antichi e che ancora oggi porta gli inconfondibili tratti di quel cane che fu, è il nostro Mastino Napoletano, che fa parte delle razze autoctone italiane riconosciute.



Con il passare dei secoli e la nascita delle grandi civiltà, il ruolo sociale del cane appare sempre più delineato e rilevante.

Le raffigurazioni dell’animale sono numerose e disseminate in molti territori: bassorilievi Assiro-Babilonesi, ritraggono scene di caccia con uomini e mute di cani; soggiogata la Mesopotamia, Ciro Re di Persia, portò al seguito del suo esercito i quattro zampe trovati nei territori conquistati, tanto era grande la loro possenza.

Le tracce del cane si trovano nella cultura ateniese e, più avanti, in quella romana dove ne appaiono cenni nelle opere di Columella, di Varrone e nel terzo libro delle “Georgiche” di Virglio.

In questi testi, si fa riferimento all’uso e alla diffusione del cane nell’antica Urbe e nelle sue regione; se ne ricava così un quadro assai interessante: il cane, non solo era usato per la guerra o per i giochi con i gladiatori, ma ne è auspicato l’asilo nella propria casa, affinché possa svolgere il suo ruolo di guardiano vigile e fedele.

Nei manoscritti Medioevali, compare la dicitura “cane da pastore” e “cane da guardia”, segno che l’uomo ha imparato sempre meglio a conoscere e sfruttare le attitudini comportamentali di questo animale.

Dal XV secolo in avanti , le espressioni pittoriche mostrano chiaramente come il canis familiaris sia ormai una presenza costante nella vita umana: non c’è infatti tela che rappresenti banchetto reale o battuta di caccia in cui uomo e cane non siano insieme. Infatti in questo secolo, l’arte pittorica, si arricchisce sempre di più; la prevalenza di soggetti sacri decade ed i pittori cominciano a volgere il loro sguardo verso le scene di vita quotidiana. Il quadro diventa espressione e testimonianza di una società: l’artista rappresenta e, di conseguenza, tramanda ai posteri un pezzo di storia, aiuta ad interpretare i vizi e le virtù di un tempo.



In questo contesto va approfondito il filone dell’arte animale, ossia quella moda tanto in voga degli artisti che, a partire dal seicento, ritraggono cani e scene di vita quotidiana dove, con i loro padroni, sono protagonisti in discussi. Ovviamente nel seicento, l’unica classe in grado di commissionare opere, era ancora la nobiltà e sono quindi i Reali del secolo che si fanno ritrarre con i loro amati cani.

Nel settecento, la pittura animale si arricchisce di soggetti: non solo i nobili vogliono essere ritratti con i propri beniamini a quattro zampe, ma li vogliono anche come unici soggetti, per mostrarne la bellezza, la prestanza fisica e la bravura nella caccia, sport molto praticato dall’elitè nobiliare.

Tra settecento e ottocento, la borghesia in piena ascesa, rivendica il suo ruolo sociale. Gli artisti, ormai meno legati al mecenatismo nobiliare, cominciano a descrivere la vita giornaliera; i quadri diventano così specchi che catturano stralci di vita vissuta. Parte essenziale di questa società sono ancora i cani, che non vengono più rappresentati in scene di caccia o in posa con i loro padroni, ma sono ritratti all’interno della famiglia, nella casa di cui fanno parte.

L’inserimento del cane come soggetto nei dipinti, è sintomatico di un atteggiamento psicologico e sociale della classe nobiliare prima e borghese poi, che fa di questo animale una parte essenziale della vita sociale e privata.

Dal Rinascimento in avanti qualcosa quindi cambia nelle dinamiche relazionali tra due e quattro zampe: il cane non è più un membro importante per l’economia della società umana, non si caccia più, se non per sport, l’arte della guerra si è affinata ed i morsi dell’antico mastino sembrano non essere più indispensabili per la vittoria.



È stato un gruppo di ricercatori giapponesi coordinati dal biologo Miho Nagasawa dell’Azabu University a scoprire questo meccanismo. Il loro studio svela che il cane è diventato il migliore amico dell’uomo imparando a guardarlo negli occhi, imitando cioè un comportamento tutto umano
Il sentimento tra noi e gli amici a quattro zampe ha una spiegazione scientifica. Cane e padrone si guardano con gli occhi dell’amore, proprio come fanno madre e figlio. Il forte legame che li unisce passa infatti dallo sguardo: il contatto visivo genera nel cervello di entrambi un’impennata dell’ormone chiamato ossitocina.
Ma non solo: i risultati della ricerca aprono nuovi orizzonti anche per quanto riguarda la pet therapy e in particolare l’uso dei cani nella riabilitazione delle persone autistiche o affette da sindrome post-traumatica da stress.

Per scoprire le radici biologiche dell’amicizia tra uomo e quattro zampe, i ricercatori hanno osservato per 30 minuti il comportamento di 30 cani (15 femmine e 15 maschi di ogni razza ed età) con i loro proprietari (24 donne e 6 uomini), documentando ogni genere di interazione (visiva, tattile o vocale) tra le due specie. Al termine dell’esperimento sono stati misurati i livelli di ossitocina nelle urine di cani e umani, confrontando i valori con quelli registrati prima dell’esperimento.

Dai risultati è emerso che più è prolungato il contatto visivo tra cane e padrone, più aumenta l’ossitocina nel cervello di entrambi.
Per capire se esistesse una relazione di causa-effetto, i ricercatori hanno fatto un secondo esperimento spruzzando l’ossitocina direttamente nel naso dei cani, lasciati poi liberi di avvicinarsi al proprietario come ad altre persone estranee.

Gli effetti sono stati subito evidenti: i cani di sesso femminile hanno risposto all’ormone dell’amore aumentando il tempo trascorso fissando lo sguardo del padrone. A distanza di 30 minuti, l’ossitocina è aumentata anche nel cervello dei loro proprietari, rendendo così evidente l’effetto a catena. Questa ‘corrispondenza di amorosi sensi’, però, non è innata, ma si è sviluppata nel corso dell’evoluzione. I ricercatori lo hanno scoperto sottoponendo agli stessi esperimenti alcuni lupi allevati dall’uomo: nessuno di loro ha mai mostrato comportamenti simili a quelli osservati nei cani. Ciò potrebbe significare che questo meccanismo biologico di attaccamento si è sviluppato contemporaneamente nell’uomo e nel cane nel corso della loro millenaria convivenza.






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IL MALE E IL BENE



«Quando ci si trova faccia a faccia con il male, si ha più che mai bisogno della minima particella di bene. Si tratta di fare in modo che la luce continui a risplendere nelle tenebre, e la vostra candela non ha senso se non nell’oscurità.»
(Jung – Lettera a padre Victor White, Oxford, 24 Novembre 1953)

Il timore che la maggior parte degli uomini normali prova di fronte alla voce interiore non è così infantile come potrebbe sembrare. I contenuti che si fanno incontro a una coscienza limitata non sono affatto innocui.  In genere invece indicano il pericolo che specificamente minaccia l’uomo. Quel che la voce interiore ci sussurra è in genere qualcosa di negativo, anzi qualcosa di infame. Dev’essere così, soprattutto perché di solito si è meno inconsapevoli delle proprie virtù che dei propri vizi, e inoltre perché il bene ci fa soffrire meno del male. La voce interiore porta alla coscienza il male che affligge il tutto, cioè il popolo cui apparteniamo o l’umanità di cui siamo parte. Ma presenta questo male in forma individuale, sicchè in un primo momento si potrebbe pensare che tutto questo male sia solo una caratteristica dell’individuo. La voce interiore ci mostra il male in modo allettante e suasivo, per farci cadere in tentazione. Se non gli si cede neppure in parte, nulla di questo male apparente entra dentro di noi, e allora non può esserci neppure alcun rinnovamento, né alcuna rigenerazione. Se l’Io ubbidisce totalmente alla voce interiore, allora i suoi contenuti agiscono come se fossero altrettanti demoni, cioè succede una catastrofe. e invece l’Io ubbidisce solo parzialmente ed è in grado di affermare se stesso evitando di essere completamente fagocitato, allora può rendere propria la voce, e ne risulterà che il male era solo apparentemente tale, mentre in realtà reca salute e illuminazione. Il carattere della voce interiore è “luciferino” nel senso più proprio e più inequivocabile del termine, ed è per questo che pone l’uomo davanti alle decisioni morali ultime, senza le quali non potrebbe mai giungere alla coscienza di sé e acquisire personalità.
Nella voce interiore, l’infimo e il sommo, l’eccelso e l’abietto, verità e menzogna spesso si mescolano imperscrutabilmente, aprendo in no un abisso di confusione, di smarrimento e disperazione.



Incontri con ombre e luci dentro di noi. Ho spesso notato come anche la parte luce è quella da cui si rifugge più della parte oscura, e questo perchè entrambi le parti ti portano, trascinandoti, alla propria solitudine, quella da cui tutti, a diversi livelli rifuggiamo, infantili e illusi che i rumori del mondo e i suoi oggetti e dinamiche impermanenti (come direbbero gli orientali) possano in qualche modo riempire quel vuoto e compensare quel mancato incontro con se stessi. Ma nulla da fare, “tutto ciò che non accettiamo e non vogliamo sapere di noi stessi finisce sempre di giungerci dall’esterno con maggiore forza assumendo la forma di Destino” (Jung).

La concezione e la modalità con cui viviamo il MALE e il BENE è generativa della profondità e l’umanità con cui viviamo la vita stessa. Il semplicistico concetto rigidamente duale di “bene” e “male” come due entità contrapposte, ha generato, come la storia e la psicologia ci insegnano, le catastrofi e le malattie più grandi dell’intera storia umana. Bisogna guardare queste due forze (che alla fine è solo una che opera in due apparenti distinti travestimenti) con l’ottica dell’etica, non della morale: solo così l’uomo può iniziare a rendersi conto che molto spesso quel “male” che opera è in realtà in vista di un equilibrio o addirittura di un “bene” non da subito visibile, ma intuibile. Qui non significa trovare una giustificazione del “male” vero e proprio; il male resta sempre e comunque male, e guai ad essere relativisti. Significa invece includere il male come parte integrante della vita e accettarlo pienamente. La medicina e la psicologia ci insegnano – grazie alle scoperte sull’uomo partite da Jung – che in realtà è proprio dal male che proviene la luce. La saggezza dei millenni ce lo esprime anche nel simbolo orientale del “Taijitu” (yin e yang = maschile e femminile; bene e male). Quando facciamo nostra una morale basata sul semplicistico concetto che include la formula “combattere il male” diventiamo pericolosi per il nostro prossimo e per noi stessi. Il male, come ci insegna ogni tradizione di saggezza antica, incluso Gesù Cristo, non va combattuto nè tantomeno eliminato: esso è parte integrante e necessaria della vita stessa.
Come ci lascia scritto “l’oscuro” Eraclito:
«Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi.»





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LACRIMA



La lacrima è una struttura liquida che ricopre la congiuntiva palpebrale bulbare e la cornea, prodotta dall'apparato lacrimale. Esso è composto da una porzione secretoria (ghiandole e dotti secretori), che secerne la lacrima, ed una escretoria, che drena la lacrima verso il naso. Per la sua valutazione quantitativa e qualitativa si ricorre all'utilizzo del lacrimoscopio.

La lacrima rappresenta la principale difesa alle infezioni batteriche corneali e congiuntivali, assieme alla palpebra. Diffondendosi uniformemente sull'epitelio corneale, funge da barriera protettiva agli agenti batterici esterni.

La componente mucotica della pellicola lacrimale svolge funzione lubrificante, nei confronti dell'epitelio corneale.

La componente acquosa della pellicola lacrimale funge da veicolo per numerose sostanze disciolte nella lacrima; ossigeno, ioni, anidride carbonica, mucine, lipidi; sostanze indispensabili all'eutrofismo della superficie oculare ed alla sua nutrizione.

Lo strato mucoso della pellicola lacrimale, migliora la trasparenza ottica della superficie corneale. I microvilli dell'epitelio corneale fungono da base alla mucina, che viene assorbita dalle villosità corneali, consentendo una migliore uniformità superficiale.

Attraverso la lacrima defluiscono verso la componente escretoria delle ghiandole lacrimali, le impurità provenienti dall'ambiente esterno.

La lacrima è composto da tre strati successivi, aventi differenti funzioni.

Lo strato mucoso è la componente più profonda della pellicola lacrimale, prodotto dalle ghiandole mucipare accessorie, e ricopre le cellule epiteliali congiuntivali e corneali. La funzione del muco, legandosi ai microvilli delle cellule superficiali della cornea, è quella di rendere idrofila la superficie stessa della cornea, altrimenti idrofoba.

Lo strato acquoso è lo strato intermedio della pellicola lacrimale, e ne costituisce la parte preminente. Prodotto principalmente dalle secrezioni delle ghiandole lacrimali principali ed accessorie, è composto oltre che da elettroliti anche da alcuni acidi organici, aminoacidi e proteine, aventi funzioni antibatteriche ed enzimatiche. Riduce gli attriti dei movimenti oculari e palpebrali, deterge le cellule epiteliali desquamate, tampona le scorie metaboliche ed asporta le impurità dell'aria.

Lo strato lipidico costituisce la parte più esterna della pellicola lacrimale, ed è composto da grassi, secreti dalle ghiandole di Meibomio. La sua funzione è quella di formare una barriera idrofoba lungo il bordo palpebrale, per impedire l'uscita del film lacrimale, e di mantenere l'idratazione della superficie oculare durante le ore di sonno, regolando inoltre il tasso di evaporazione dello strato acquoso della lacrima stessa.



Le lacrime sgorgano più abbondanti per viva commozione, per dolore fisico o morale, o anche nel moto convulso del ridere: lacrime di dolore, di gioia, di pentimento, di pietà, di tenerezza; lacrime sincere, finte; una lacrima furtiva; avere le lacrime agli occhi; gli spuntò una lacrima; gli occhi mi si riempirono di lacrime; qualche lacrima gli scende lungo il viso, lava la guancia un po’ sporca e si sporca, finisce in bocca con un sapore salato (Claudio Magris); gli vennero le lacrime dal gran ridere. Lacrime di sangue, raro fenomeno, osservato in individui isterici, consistente nella presenza di sangue nel secreto lacrimale.

In molte locuzioni, e quando non siano altrimenti determinate, s’intende in genere lacrime provocate da dolore o commozione: spargere lacrime; versare amare lacrime; piangere a calde lacrime, disperatamente (spesso enfatico); piangere a lacrime di sangue, essere tutto in lacrime, in un mare di lacrime; pregare, supplicare con le lacrime agli occhi; bagnare (inondare) di lacrime; asciugarsi, tergersi le lacrime; asciugare le lacrime, figurativo, consolare; dolore che spreme le lacrime; commuoversi fino alle lacrime; era uno spettacolo che strappava le lacrime, che commuoveva profondamente; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante (Manzoni); ingoiare le lacrime, trattenere il pianto per nascondere il proprio dolore; ha le lacrime in tasca, di chi piange per un nonnulla o si commuove assai facilmente; non ha più lacrime, di chi ha pianto tanto. Quindi spesso sinonimo di pianto: trattenere, frenare le lacrime; prorompere, scoppiare in lacrime; sciogliersi, struggersi in lacrime, piangere dirottamente; non avere il dono delle lacrime, non poter piangere. E con valore generico di dolore, patimento: gli è costato molte lacrime; valle di lacrime (locuz. biblica), il mondo, la vita umana; lacrime di coccodrillo, tardo pentimento, e talora solo apparente, di chi si rammarica del male da lui stesso voluto.

Lui, piu’ di lei, e’ capace di commuoversi Contrariamente a quanto si crede non sono solo le donne ad avere il pianto facile. Una ricerca svela che anche gli uomini si lasciano andare a questo sfogo con una certa frequenza. Tutti si meravigliano, perche’ si ritiene che a gonfiarsi di pianto siano sempre gli occhi delle donne e non quelle di simili machi. E invece, pare che non sia affatto vero: uno studio presentato durante il Congresso della British Psychological Association, dal gruppo di psicologi diretti da Eleanor Maguire dell’ Universita’ di Luton, ha dimostrato che i maschi piangono proprio come le donne, anche se spesso per motivi diversi. Gli studiosi inglesi sono arrivati a questa conclusione dopo aver messo a punto un vero e proprio test psicologico chiamato Adult Crying Inventory (Inventario del Pianto nell’ Adulto) con cui hanno scoperto che in media le donne piangono piu’ spesso (1 volta ogni 2 settimane, contro i 6 mesi degli uomini), ma e’ soprattutto la qualita’ del pianto ad essere diversa. Le donne piangono quando provano inadeguatezza, un sentimento che invece non fa versare neppure una lacrima agli uomini, che piangono piuttosto quando qualcosa riesce a commuoverli. Un uomo su dieci piange anche di gioia e addirittura nove volte su dieci per la vittoria della propria squadra di calcio, mentre solo una donna su 50 versa lacrime di felicita’ . Le donne poi collegano il pianto ad almeno quattro sentimenti: paura, vergogna, impotenza e rabbia. I maschi solo a due: tristezza e dolore. "L' esperienza emotiva delle donne e' sempre piu' complessa - spiega la Maguire - e per loro e' piu' accettabile parlare liberamente di una crisi di pianto. Molte donne smettono di piangere perche' vengono consolate da qualcuno, ma e' raro che cio' avvenga per l' uomo: l' uomo piange in solitudine e il suo pianto non e' uno strumento di comunicazione sociale". Il motivo riportato da tutti, maschi e femmine, come la causa in assoluto piu' frequente di pianto e' la rottura di un rapporto d' amore e, negli uomini, cio' viene riportato con una frequenza addirittura doppia rispetto alle donne. Un famoso bestseller d' oltreoceano, giunto ormai alla sua terza riedizione e tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, aveva un titolo emblematico: Le donne sono di Venere e gli uomini di Marte, ma ormai sembra che cio' sia vero solo quando i due si dicono addio. Lo ha definitivamente dimostrato un altro studio dell' Universita' californiana di Palo Alto pubblicato sul Journal of Cognitive Psychotherapy. "Fra i 230 uomini e le 197 donne che abbiamo studiato non c' e' neppure il piu' piccolo indizio di una qualche differenza fra i due sessi nel modo di reagire agli eventi della vita - racconta David Burns, psichiatra della Standford University di Palo Alto - fino ad oggi, non solo fra gli autori di libri destinati alla gente, ma anche fra psicologi e psichiatri, era assai diffusa l' errata opinione che la donna cadesse nel pianto e nella depressione soprattutto quando incontrava problemi sentimentali e di relazione perche' caratterizzata da una psicologia cosiddetta di dipendenza che la terrebbe legata a doppio filo con gli altri, portandola ad evitare i conflitti, soprattutto coniugali, per il timore di restare sola. Allo stesso modo si e' sempre creduto che l' uomo fosse invece colpito da depressione soprattutto per problemi di lavoro, perche' caratterizzato da una psicologia cosiddetta di perfezionismo che lo porterebbe a difendere a spada tratta la sua immagine ideale di cavaliere senza macchia, con l' obbligo di pretendere da se stesso sempre elevati livelli di rendimento, nella continua paura di fallire o di commettere qualche errore. E invece i livelli di dipendenza e di perfezionismo sono risultati identici nell' uomo e nella donna: quest' ultima conserva ancora soltanto un primato in termini di quantita' , ma non di qualita' , perche' la sua depressione, cosi' come la sua ansia, sono solo piu' frequenti, ma presentano gli stessi caratteri e sono scatenate dagli stessi fattori importanti per il maschio". Ma non e' tutto, una crisi di pianto, anche se di gioia, puo' scatenare mal di testa: "Una paziente di 28 anni - racconta Randolph Evans in uno studio pubblicato su una rivista - non sviluppava ad esempio cefalea se piangeva di felicita' o pelava una cipolla, ne' dopo un film commuovente, ma solo quando versava lacrime di reale tristezza. Invece un' altra di 41 anni, da 5 aveva mal di testa ogni volta che piangeva per almeno cinque minuti".
La nascita di un figlio e' motivo di pianto per molti uomini oltre che per le donne. Anche in questo caso la parita' fra i sessi e' sempre piu' forte, tanto che oggi la depressione post - partum colpisce anche l' uomo, nella misura del 4 % con punte del 10 % in Inghilterra. Uno studio canadese ha dimostrato che anche dal punto di vista ormonale davanti allo stress della nascita di un figlio, uomo e donna hanno reazioni simili: il futuro papa' ha cali ormonali come la consorte, riducendo il testosterone, cosi' da essere meno aggressivo e piu' paterno.



C'e' solo un momento della vita in cui uomo e donna reagiscono in modo diverso ad un evento depressivo: quando si dicono addio. Una recente indagine ISTAT ha rilevato che in Italia, sette volte su dieci e' lei ad abbandonare il nido d' amore e ad andarsene. La donna rischia piu' dell' uomo di perdere la sua folta chioma dopo la rottura del rapporto, ma e' il maschio a correre i maggiori pericoli di depressione: uno studio della California University ha evidenziato che dopo un divorzio o una separazione il maschio rischia due volte e mezzo in piu' di abbandonarsi al pianto e alla disperazione. "Questa diversita' - spiega la psichiatra Augustine Kposowa, una delle autrici dello studio - risiede nel diverso modo che hanno uomo e donna di intessere le relazioni con gli altri: mentre la donna sviluppa amicizie piu' profonde, il maschio non ha molti amici veri, ma tende ad avere un atteggiamento da macho, solitario e autosufficiente. Cosi' , dopo una separazione, le donne possono trovare maggior supporto tra le loro amicizie. Un altro punto debole dell' uomo e' la perdita del ruolo genitoriale in caso di figli: la mamma resta sempre la mamma e spesso la custodia dei minori viene affidata a lei, mentre il padre smette di essere percepito come tale molto tempo prima rispetto alla sua ex moglie". Cosi' l' uomo, non solo perde la propria compagna di vita, ma spesso anche i figli, la casa e molto danaro, tutti fattori che accentuano il suo disagio psichico. E cosi' non gli resta che piangere.
Uno studio della Ohio State University di Columbus su 5.000 donne e 3.000 uomini ha per la prima volta dimostrato che in corso di depressione gli uomini corrono maggiori rischi delle donne di andare incontro a malattie cardiache come coronaropatie (2,7 volte in piu' contro 1,7 rispetto a chi non e' depresso).







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sabato 26 settembre 2015

LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA



Dietro alla sensazione della calma prima che si scateni il finimondo, c' è una precisa ragione scientifica. Quando si forma una tempesta, l' aria calda e umida viene raccolta dall' atmosfera circostante e sospinta verso le nubi più alte del temporale in arrivo. Successivamente l' aria discende al suolo più mite, asciutta e stabile. In questa maniera, le persone che vivono nella zona in cui sta per scatenarsi il temporale si trovano in una situazione di estrema calma cui farà seguito, però, un repentino cambio di stato.La fisica ci insegna che presenza di più forze, la variazione dallo stato di quiete a quello di moto viene determinata dalla risultante della loro composizione vettoriale. In altre parole, per stabilire l' effetto complessivo di più forze agenti su un oggetto, si devono considerare l' intensità e la direzione delle stesse. Quando le forze agiscono nella stessa direzione, il loro effetto totale si ottiene per somma o sottrazione, ma se agiscono in direzioni diverse  si deve disegnare un diagramma, detto parallelogramma delle forze, la cui diagonale indica la direzione e l' intensità della forza complessiva.






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venerdì 25 settembre 2015

Ci Facciamo Una Bella RISATA?



Ridere è una capacità tipicamente umana, innata in ognuno di noi anche se, sempre più spesso, ci dimentichiamo l'importanza e l'effetto benefico che una sana risata può avere sul nostro cervello e sul nostro organismo.

La nostra società giudica in modo eccessivamente positivo la serietà e la predisposizione a vivere in modo esageratamente composto, mentre  il divertimento e la tendenza a ridere vengono vissuti come aspetti da circoscrivere a momenti ludici e di svago. Uno dei luoghi comuni più diffusi ci porta a pensare che serietà sia sinonimo di costanza, affidabilità e responsabilità, mentre l'allegria è spesso fraintesa come eccessiva leggerezza e superficialità. Da questa credenza scaturisce l'idea che una persona portata a sdrammatizzare, a ridere anche nelle situazioni più critiche e complesse sia immatura, ingenua e non all'altezza di certi compiti e impegni. Invece è una qualità preziosa che ci consente di esse flessibili, elastici e di cambiare visuale con agilità.

Ridere ci permette di liberarci dagli atteggiamenti mentali chiusi, troppo razionali e statici, ci aiuta a sviluppare una curiosità e un'intelligenza creativa che ci rende aperti, elastici e dotati di molteplici punti di vista. Un pensiero costantemente serioso diventa ripetitivo e pedante, le fissazioni producono ansia e stress, la rigidità assorbe le nostre energie impedendoci di vedere il problema sotto un'altra luce. Una bella risata nutre il cervello, libera sostanze che hanno una funzione benefica sul sistema immunitario e migliorano il tono dell'umore; tali sostanze, inoltre, eliminano lo stress aiutandoci a prevenire tutta una serie di disturbi ad esso correlati (attacchi di panico, depressione, ansia, malattie cardiovascolari).

Diverse ricerche hanno dimostrato che elevati livelli di stress e ansia causano un abbassamento delle naturali difese immunitarie del nostro organismo. Al contrario una bella risata, spontanea, di pancia, rappresenta un vero toccasana che ci aiuta a tenere lontano tensione, disagi e malattie. Ridere favorisce la circolazione e l'ossigenazione del sangue, permettendo in questo modo ai tessuti di rigenerarsi; la risata, inoltre, stimola la produzione di endorfine, sostanze chimiche che hanno un effetto benefico sul sistema cardiovascolare. Se si pensa che tutto ciò che condiziona lo stato emozionale di un individuo ha un impatto importante sul cuore, è facile comprendere quanto una semplice risata possa giovare alla nostra salute.



Non a caso negli ultimi decenni si è sviluppata una vera e propria terapia del sorriso, detta anche clown-terapia, usata in molteplici contesti socio-sanitari (situazioni di disagio sociale, ospedali, case di cura...) e particolarmente adatta con i bambini. È un approccio fondato sulla constatazione degli effetti benefici che l'allegria e una sana risata sono in grado di produrre, anche su pazienti gravemente malati.

Basta la semplice azione di inarcare le labbra all’insù perché l'organismo inizi a produrre endorfine. Secondo alcune ricerche i bambini in media ridono trecento volte al giorno, il numero scende drasticamente nei soggetti adulti: appena venti risate, in media, in tutta la giornata. È possibile imparare di nuovo a ridere? Sì, discipline come lo yoga della risata si propongono proprio questo grazie a tecniche che lavorano sulla respirazione e il riso indotto. Perché ridere è un meccanismo innato che può diventare una filosofia con cui affrontare l'esistenza.

Il ricercatore Caspar Addyman ha condotto una lunga indagine sul meccanismo della risata nei neonati presso il Centro per il Cervello e lo Sviluppo Cognitivo a Birkbeck, Università di Londra. Contrariamente a quanto si riteneva in precedenza, i suoi risultati hanno documentato che il 90% dei bambini inizia a ridere già a poche settimane di distanza dalla nascita. La risata costituisce una delle più fondamentali espressioni umane: è stato osservato che bambini nati ciechi e sordi conservano l'istinto e la capacità di ridere.
Attraverso una semplice risata il bioritmo inizia una corsa che mette in movimento l'intero organismo: una scossa elettrica che, quando ci permettiamo di ridere “di pancia”, ci fa letteralmente “piegare in due” in un singulto al limite del pianto. Ci si libera così da ogni tensione: i muscoli si contraggono e si rilasciano, mentre il ritmo del corpo che si muove senza regole allontana ogni pensiero. Ogni volta che iniziamo a ridere l'ansia è un passo più lontana, insieme allo stress e allo sforzo di dover sempre sottostare alle convenzioni.
La maggior parte di noi è costretta a vivere in un habitus troppo stretto, angusto, per la maggior parte del tempo della vita. La serietà e l'impegno richiesti in numerosi ambiti della routine quotidiana lentamente spengono la voglia di esprimere la propria carica vitale, l'energia e i sorrisi di cui avremmo bisogno per portare a termine la giornata senza sentirci sconfitti. Ridere è una forma di protesta che unisce individui diversi e aiuta la pace, questo perché smorza improvvisamente le tensioni e fa apparire la vita in tutta la sua precarietà, complicata ed emozionante.

Grazie a una risata che nella fase iniziale è indotta si impara a lasciarsi andare e a ridere di cuore, attività che, come dimostrato da numerose ricerche, ha effetti sul sistema circolatorio, contribuisce ad abbassare la pressione e regola il colesterolo. Lentamente, di fronte ai guai di ogni giorno, si sperimenta inoltre che di fronte all'apparente impossibilità di trovare una soluzione non rimane che un’unica soluzione... una risata salvifica.



La risata può anche essere provocata dal solletico. Sebbene la maggior parte delle persone lo trovi sgradevole, il solletico è spesso causa di forti risate, reputato di essere un riflesso fisico spesso incontrollabile.

La risata può essere classificata in vari modi. In base all'intensità: il ridacchiare, il cachinno, la risatina, il riso represso, lo sghignazzamento, la risata di pancia (a crepapelle), lo scoppio di risa. Secondo l'apertura di bocca: risolino, sogghigno, sghignazzo. Secondo il modo respiratorio: sbuffata ilare. Secondo l'emozione, si esprime con: sollievo, allegria, gioia, felicità, imbarazzo, scuse, confusione, risata nervosa, risata paradossale, risata di cortesia, risata malvagia. Le risate possono essere classificate anche in base alla sequenza di note o tonalità che produce.

È stato anche determinato che gli occhi si inumidiscono durante la risata, come riflesso delle ghiandole lacrimali.

La risata non è sempre un'esperienza piacevole ed è associata a diversi fenomeni negativi. L'eccessivo ridere può portare a cataplessia e a spiacevoli attacchi di risa, esaltazione eccessiva e colpi ricorrenti di sghignazzate - da considersi tutti aspetti negativi del ridere. Attacchi sgradevoli di risate, o "farsa allegria", di solito si verificano in persone che hanno una condizione neurologica, tra cui i pazienti con sindrome pseudobulbare, sclerosi multipla e malattia di Parkinson. Questi pazienti sembrano ridere di divertimento, ma poi riferiscono che sentono sensazioni indesiderate "al momento della battuta". L'esaltazione eccessiva è un sintomo comune associato con psicosi maniaco-depressiva e mania/ipomania. Coloro che soffrono di psicosi schizofreniche sembrano soffrire il contrario — non capiscono l'umorismo o non ottengono nessuna gioia da esso. Un accesso di risa descrive un momento anomalo quando non si può controllare la risata o il proprio corpo, a volte causando convulsioni o un breve periodo di incoscienza. Alcuni credono che eccessi di risate rappresentino una forma di epilessia.



Sigmund Freud riassunse nella sua teoria che il riso rilascia tensione ed "energia psichica". Questa teoria è una delle giustificazioni delle affermazioni che la risata è benefica per la salute. Tale teoria spiega il perché la risata possa essere usata come "meccanismo di sopportazione" quando uno è triste o agitato.

Il filosofo John Morreall, fondatore della Società Internazionale di Studi sull'Umorismo (ISHS), asserisce che la risata umana potrebbe avere le sue origini biologiche come una sorta di espressione condivisa di sollievo al superamento di pericolo. Friedrich Nietzsche, al contrario, suggeriva che la risata era una reazione al senso di solitudine esistenziale e alla mortalità che solo gli esseri umani sentono.

Per esempio: una barzelletta crea un'incoerenza e il pubblico cerca automaticamente di capire che cosa significa tale incoerenza; se gli spettatori riescono a risolvere questo "indovinello cognitivo" e si rendono conto che la sorpresa non era pericolosa, allora ridono di sollievo. Altrimenti, se l'incongruenza non è risolta, non c'è risata, come Mack Sennett ha sottolineato: "Quando il pubblico è confuso, non ride". Questa è una delle leggi fondamentali del comico, denominata "esattezza". È importante notare che a volte l'incoerenza può essere risolta, ma potrebbe non esserci lo stesso nessuna risata. Poiché la risata è un meccanismo sociale, il pubblico potrebbe non percepire di "essere in pericolo" e la risata non si verificherebbe. Inoltre, la misura dell'incoerenza (e gli aspetti di tempo e ritmo) ha a che fare con la quantità di pericolo che il pubblico avverte e quanto a lungo e forte ridano.

Le risate in letteratura, sebbene considerate poco studiate da alcuni, sono un argomento che ha ricevuto l'attenzione in letteratura per millenni. L'uso dell'umorismo e della risata in opere letterarie è stato studiato e analizzato da molti pensatori e scrittori, dagli antichi filosofi greci in poi. Il riso. Saggio sul significato del comico (1900 di Henri Bergson) è un notevole contributo del XX secolo.

Per Erodoto, si può distinguere il ridere in tre tipi:

Coloro che sono innocenti da misfatti, ma ignoranti della propria vulnerabilità.
Coloro che sono pazzi.
Coloro che sono troppo sicuri di sé.
Secondo l'accademico americano Donald Lateiner, Erodoto scrive sul ridere per valide ragioni letterarie e storiologiche. "Erodoto crede che la natura (o meglio, la sua direzione da parte degli dèi) e la natura umana coincidano sufficientemente, oppure che quest'ultima non è che un aspetto o analogia della prima, cosicché l'esito viene suggerito al destinatario." Nell'esaminare la risata, Erodoto lo fa nella convinzione che essa dica al lettore qualcosa sul futuro e/o carattere della persona che ride. È anche in questo senso che non è un caso che in circa l'ottanta per cento delle volte in cui Erodoto parla della risata, essa sia seguita da una punizione. "Gli uomini la cui risata merita un riscontro, sono segnati, perché la risata connota sdegno sprezzante, un senso arrogante di superiorità, e questo sentimento e le azioni che ne derivano attirano l'ira degli dei."



Thomas Hobbes intende la superiorità della risata in un senso molto più ampio di quello estetico e quasi-morale di Aristotele: le basi della teoria di superiorità sono sicuramente greche. Con le parole di Hobbes: "La passione della risata non è altro che la gloria improvvisa derivante dal concepimento improvviso di una qualche eminenza in noi stessi, in confronto con l'infermità di altri, o con la nostra precedente."

Schopenhauer dedica alla risata il 13º capitolo della prima parte della sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione.

Friedrich Nietzsche distingue due scopi differenti per l'utilizzo delle risate. In senso positivo, "l'uomo utilizza il comico come terapia contro la veste restrittiva della moralità logica e della ragione. Ha bisogno di tanto in tanto di una retrocessione innocua dalla ragione e dal disagio, e in questo senso la risata per Nietzsche ha un carattere positivo." La risata può tuttavia avere anche una connotazione negativa quando viene utilizzata per l'espressione di un conflitto sociale. Ciò viene espresso, per esempio, in La gaia scienza: "Risata - Ridere significa essere schadenfroh, ma con la coscienza pulita."

"Forse le opere di Nietzsche avrebbero avuto un effetto totalmente diverso, se il giocoso, l'ironico e lo scherzoso nei suoi scritti fossero stati inseriti meglio."

Nel suo Il riso. Saggio sul significato del comico, il filosofo francese Henri Bergson, rinomato per i suoi studi filosofici sul materialismo, la memoria, la vita e la coscienza, cercò di determinare le leggi del comico e capire le cause fondamentali delle situazioni umoristiche. Il suo metodo consiste nel determinare le cause del comico invece di analizzarne gli effetti. Affronta inoltre la risata in relazione alla vita umana, all'immaginazione collettiva e all'arte, per avere una migliore conoscenza della società.Una delle teorie del saggio è che la risata, come attività collettiva, ha un ruolo sociale e morale; costringe le persone ad eliminare i loro vizi. È un fattore di uniformità dei comportamenti, condanna i comportamenti ridicoli ed eccentrici.

In questo saggio, Bergson ha anche affermato che vi è una causa centrale per tutte le situazioni comiche, che sono derivate da una meccanizzazione applicata alla vita. La fonte basilare del comico è la presenza di inflessibilità e rigidità nella vita. In effetti, per Bergson l'essenza della vita è movimento, elasticità e flessibilità, e ogni situazione comica è dovuta alla presenza di rigidità e di scarsa elasticità di vita. Quindi per Bergson la fonte del comico non è la bruttezza ma la rigidità. Tutti gli esempi presi da Bergson (un uomo che cade per strada, i cartoni animati, l'imitazione, l'applicazione automatica di convenzioni e regole, la distrazione, i gesti ripetitivi di un oratore, la somiglianza tra due facce...) sono situazioni comiche perché danno l'impressione che la vita sia soggetta a rigidità, automatismo e meccanizzazione.

Bergson ha effettivamente avuto questa idea da Schopenhauer, che spiega come la risata emerga dalla collisione tra intuizione e ragione. Infine, Bergson osserva che la maggior parte delle situazioni comiche non sono risibili perché fanno parte delle abitudini collettive. Quindi definisce la risata come un'attività intellettuale che richiede un approccio immediato a una situazione comica, totalmente distaccato da una qualsiasi forma di emozione o sensibilità. Ibid Una situazione diventa risibile, quando l'attenzione e l'immaginazione sono concentrate sulla resistenza e la rigidità del corpo. Così qualcuno diventa risibile ogni volta che dia l'impressione di essere una cosa o una macchina.





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lunedì 21 settembre 2015

NOSTALGIA....



“Nostalgia” è una parola con etimologia di derivazione greca. Viene infatti da “nòstos“, cioè “tornare a casa, o alla propria terra natale” e “algos“, che si riferisce invece al “dolore, alla sofferenza” dello stare lontani.
Il termine venne creato dal diciottenne alsaziano Johannes Hofer, il quale, nel 1688, inserì questo concetto nella sua tesi di laurea in medicina, presso l’Università di Basilea. I francesi l’hanno poi chiamata mal du pays, i tedeschi Heimweh, gli inglesi homesickness: tutti termini che mettono in evidenza il desiderio ossessivo di fare ritorno in patria, a casa propria. In portoghese la nostalgia è invece espressa con la parola saudade, linfa del Fado, un insieme di rimpianto per il passato, mancanza nel presente e desiderio per il futuro. (In molti casi il termine ha una dimensione quasi mistica, come accettazione del passato e fede nel futuro).

Il contributo di Hofer è considerato fondamentale nel campo della medicina psicologica e psicosomatica, per almeno due ragioni: è stato il primo studioso a descrivere la nostalgia come una condizione clinica, e nel suo scritto ha messo in evidenza gli effetti della mente sul corpo (Martin 1954).

In realtà, anche se sotto altri nomi, ben prima del lavoro di Hofer, la nostalgia era già apparsa nella letteratura e nella poesia, a partire dai salmi biblici, per continuare con gli scritti di Omero, Ippocrate, e Cesare. Il desiderio di tornare alla propria casa è un motivo da sempre ricorrente, che nel periodo classico preoccupava soprattutto le gerarchie militari per l’umore dei soldati, i quali dovevano trascorrere molti anni lontani dalle loro case e dalle persone care, con il rischio di diserzione o di suicidio. Questo interesse verso gli stati emotivi dei soldati si è ripetuto durante le guerre mondiali più recenti, quando furono prese iniziative per prevenire e curare i soldati che soffrivano di nostalgia (Martin 1954; Nawas e Platt 1965).

Negli anni cinquanta del secolo scorso, la nostalgia cominciò ad essere descritta anche come una vera e propria patologia: “La nostalgia non è una malattia mentale, ma può svilupparsi in modo monomaniacale, diventando uno stato mentale ossessivo che causa infelicità intensa. Si manifesta di solito con un intenso desiderio di tornare al proprio Paese o alla propria città di origine”. (Nandon Fodor, 1950).



Il termine nostalgia in sé, pur derivato dal greco come molti termini scientifici, era sconosciuto al mondo greco. Entra nel vocabolario europeo nel XVII secolo, per opera di uno studente di medicina alsaziano dell'Università di Basilea, Johannes Hofer, il quale, constatando le sofferenze dei mercenari svizzeri al servizio del re di Francia Luigi XIV, costretti a stare a lungo lontani dai monti e dalle vallate della loro patria, dedicò a questo fenomeno una tesi, pubblicata a Basilea nel 1688 con il titolo "Dissertazione medica sulla nostalgia". Con questo termine greco di nuovo conio, infatti, Hofer traduce nel linguaggio scientifico l'espressione francese «mal du pays» e il termine tedesco «Heimweh» (letteralmente dolore per la casa), ancor oggi utilizzati nelle rispettive lingue. Tale stato patologico era così grave che spesso portava alla morte i soggetti che ne erano colpiti e nessun intervento medico valeva a ridare loro le forze e la salute a meno che non li si riportasse verso casa. A partire dalla fine del XVIII secolo e soprattutto nella prima metà del secolo successivo, accanto all'interesse medico, la nostalgia convoglia notevoli attenzioni in ambito poetico e musicale, in corrispondenza con l'ondata migratoria dall'Est Europa. Tuttavia, è soltanto a partire da Charles Baudelaire che il termine si libera dal riferimento a precisi luoghi o al passato infantile, per assurgere a condizione di anelito indefinito.

Virginia de Micco, nel testo a sua cura Le culture della salute-immigrazione e sanità, un approccio trans-culturale, scrive:

« Fin dalla sua apparizione sulla scena medica la nostalgia si presenta come una ben strana malattia che pur compromettendo lo stato fisico del soggetto non viene curata da rimedi fisici ma viene curata solo da mutamenti sul piano delle condizioni di vita, viene risolta attraverso strumenti antropologici che consentono una visione ed un’integrazione più profonda dell’individuo nell’ambiente in cui vive e opera. »



Secondo Renos K. Papadopoulos il fatto che tutti i rifugiati abbiano perduto la casa (o la madrepatria) fa sì che condividano un profondo senso di struggimento nostalgico e che desiderino riparare quel tipo molto specifico di perdita. Nostalgia è il termine usato per descrivere l’intero fascio di tutti quei sentimenti, reazioni, speranze, timori, etc. In questa ottica la nostalgia non può essere separata da ciò che la “casa” rappresenta soprattutto a livello simbolico. In particolar modo per i rifugiati, ciò crea un disorientamento in quanto si rivela impossibile stabilire con esattezza l’origine precisa di una perdita che non si limita a quella tangibile di una casa tout court, intesa nella sua materialità, ma che si allarga alla perdita di tutti i tipi di rapporti personali che il soggetto intrattiene con se stesso, con gli altri e con l’ambiente sociale che lo circonda.

Dopo aver lasciato il proprio paese, la propria casa, il luogo dove si è conosciuti e riconosciuti, le poche certezze che hanno segnato e dato senso alla propria esistenza, la nostalgia può rappresentare un’emozione talmente intensa da manifestarsi come esperienza dolorosa, e condurre ad un malessere psichico e fisico. L'antropologo ed etnopsichiatra Roberto Beneduce scrive:

« “Se prima del viaggio si erano costruiti progetti e speranze ed erano state tracciate le premesse di una nuova autonomia, dopo qualche tempo quando i problemi incontrati nei paesi ospiti hanno finito con l’estenuare questa carica progettuale e i bisogni affettivi si sono resi insopprimibili, può accadere al migrante di sentire il proprio progetto esistenziale spezzarsi. Egli può avvertire intorno a sé forze più grandi che lo spingono alla deriva fino a fargli mancare i riferimenti più concreti e irrinunciabili. »
Se da un lato la nostalgia è disillusione e può condurre a un malessere del corpo e della mente, dall’altro può essere vissuta come una spinta verso il luogo di origine, verso il proprio paese, verso gli affetti, verso le proprie radici e la propria storia, spinta che consente di non sentirsi senza casa, senza appartenenza, senza paese e costituisce una risposta al sentimento del pericolo incombente sulla propria identità. Nostalgia allora anche come consolazione e come rifugio. Spesso la nostalgia si condensa intorno ad alcune immagini (di oggetti, di luoghi, di persone) che si rivelano nell’esperienza come fortemente significativi per la propria dimensione dell’essere e molto consolatori rispetto al vissuto dello spaesamento. La nostalgia è un “terreno ricco” nella clinica con le persone straniere, nel quale è molto importante per il terapeuta sapersi muovere, infatti gli “oggetti” della nostalgia (che nel tempo possono anche perdere un po’ di concretezza) ci rivelano molto dell’inespresso della persona, non solo del suo passato, ma anche dei suoi bisogni, dei suoi desideri nel presente.

Il sentimento di nostalgia rappresenta uno dei raccordi fondamentali tra l'identità personale e i processi di identificazione collettiva, ovvero tra il piano psicologico e quello politico.

Una prima funzione del discorso nostalgico, rinvenibile in numerose mitologie e narrazioni nazionali (o di altre formazioni sociali), fa leva sulla malinconia personale per i tempi e spazi sfuggenti, alimentando, così, la speranza utopica del singolo nelle capacità redentrici della collettività. Il movimento verso l’obiettivo “escatologico” (quale ad esempio può essere il conseguimento dell’unità nazionale) è dipinto come un ritorno a una condizione originaria, naturale, salvifica, da sempre latente ma sepolta sotto le macerie del tempo oppure collocata altrove nello spazio. Per cui il discorso è costellato di termini come “rinascita”, “risorgimento”, "riscossa", "ritorno" e simili. In questi casi il sentimento nostalgico non svolge una funzione paralizzante, ma al contrario mobilitante. Non di rado intriga il singolo con tanta più intensità sentimentale quanto più lontano appaia la realizzazione dell’obbiettivo. Questo spiega, tra l’altro, il ruolo eminente che nell’immaginario di varie collettività hanno assunto, oltre agli esili, le “sconfitte”, che in modo a prima vista paradossale, invece di scoraggiare, mobilitano (il caso più spesso citato è probabilmente quello della Battaglia del Campo dei Merli nell’immaginario serbo, ma la storia è ricca di esempi consimili).

Un secondo importante contributo del sentimento nostalgico consiste nell'elaborazione psicologica e culturale di cesure politiche talmente traumatiche da produrre una frattura anche nella biografia dei singoli. I casi recenti più noti sono quelli delle varie "ostalgie" post-socialiste, ma gli esempi storici sono legione. Nelle manifestazioni pubbliche di nostalgia, che possono essere di carattere ufficiale oppure assumere la forma dell'opposizione a un presente indesiderato, s'interseca ancora una volta l’elaborazione del “lutto” personale per i tempi andati con il discorso politico o proto-politico. Può sorprendere come in molti casi il sentimento nostalgico nasca quasi nel momento stesso del passare brusco e inavvertito di un presente familiare. Con ancora più stupore si nota che tale sentimento spesso prescinde del tutto da come, con quale felicità o infelicità, i tempi passati erano stati effettivamente vissuti. Ma lo stupore per questa involuzione sentimentale si basa su un equivoco: l'elaborazione nostalgica non è veramente protesa verso un ritorno al passato. Essa assomiglia, in realtà, a uno struggente commiato da una parte del Sé non più presente, quasi fosse un rito funebre necessario per ridare senso e coerenza alla propria narrazione storica e biografica. Un passaggio, questo, quindi necessario per conciliarsi, in modo talora dolce e talaltra più rancoroso, con il presente. Il ricordo malinconico del passato segnala dunque una pur dolorosa accettazione dello spostamento delle coordinate spazio-temporali, consentendo di riposizionare entro tali coordinate le proprie attese, personali e collettive, per il futuro.




Il momento nostalgico può avvenire:

all’improvviso, quando percepiamo qualcosa che stimola il ricordo;
nei momenti “statici”, magari di solitudine (intesa nella sua accezione più ampia).
Questa sensazione tende a bloccare emotivamente la persona che in quel momento la sta provando, “annullando” il contesto ambientale e portando la psiche a compiere dei veri e propri “viaggi mentali” che coinvolgono naturalmente anche i nostri sensi e il nostro equilibrio psico-fisico.

Esperimenti condotti dalla psicologa Constantine Sedikides dell’università di Southampton (1999), provano che la nostalgia può addirittura provocare beneficio: non solo riesce a combattere la solitudine e la depressione, ma presenta anche degli effetti fisiologici positivi, come per esempio l’aumento della temperatura corporea.

I ricordi nostalgici aiutano a rafforzare i legami sociali: pensiamo alle serate nelle quali si guardano delle vecchie foto o si raccontano esperienze memorabili vissute assieme.
Insomma, la nostalgia può essere un momento triste ma può anche provocare stati d’animo piacevoli e positivi.






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LA MALINCONIA



Gli antichi Greci, da Ippocrate in poi, ritenevano infatti che i caratteri umani e, di conseguenza, i loro comportamenti, fossero frutto della varia combinazione dei quattro umori base, ovvero bile nera, bile gialla, flegma ed infine il sangue (umore rosso). Inoltre, gli antichi popoli indoeuropei abbinavano ai quattro umori i cicli del creato, come l'alternarsi delle stagioni.

Questi "umori", ovvero liquidi, proprio in conseguenza delle credenze antiche, significano "stati d'animo" e da essi derivano etimologicamente il carattere "melanconico", quello "flegmatico" (flemmatico), quello "sanguigno" ed infine il "collerico". Di per sé quindi ciascuno dei quattro umori non costituiva una malattia, ma un loro squilibrio poteva esserne la causa fino a degenerare nella morte.

Il significato di "umore nero" non era da ricollegare al senso moderno di rabbia o stizza, ma piuttosto al "dolce oblio", una leggera venatura di tristezza che pervadeva il carattere, rendendolo profondo ed orientato alla pace ed all'introspezione. La malinconia si distingue benissimo dalla comune tristezza in quanto il malinconico ha uno stato di "consapevole impotenza " vicina alla depressione e rivolta al passato. Ancora oggi riconosciamo agli artisti un carattere prevalentemente melanconico, proprio per questo capace di cogliere gli aspetti della vita che sfuggono ai più audaci ed irruenti.

Il carattere melancolico era inoltre abbinato al clima freddo e secco, l'autunno, ed il suo elemento era la terra.

È necessario notare che la medicina ippocratica è perdurata in Europa fino al XIX secolo, mentre la "moderna" teoria di Carl Gustav Jung sui caratteri e sui temperamenti è dei primi anni del XX secolo.




Il pensiero psicopatologico più sistematico sulla malinconia e sui suoi rapporti con altri quadri psichici è quello di Areteo di Cappadocia, che descrive la tristezza, il rallentamento, lo scoraggiamento, la perdita del tono vitale, il senso di vuoto e la tendenza al suicidio. Areteo riconosce il rapporto, sia pure parziale, della malinconia con la mania, i passaggi dall’uno all’altro stato e il loro decorso periodico. La distinzione della malinconia dalle ‘freniti’, cioè dai disturbi psichici febbrili, si ritrova per la prima volta in Sorano di Efeso (intorno al 100 d.C.), mentre Galeno sviluppa soprattutto i concetti patogenetici della maliconia in rapporto allo stomaco e all’ipocondrio. Nel Medioevo la malinconia viene vista come accidia in contrasto polare con la vita activa. Nella psichiatria francese dell’inizio del 19° sec. si parla di lipemania: J.-P. Falret è il primo a parlare di ‘folie circulaire’ (1851), mentre J.-G.-F. Baillarger di ‘folie à double forme’ (1854). Si deve a E. Kreepelin (1883) la prima sistematizzazione della malinconia sia come forma semplice sia come psicosi periodica circolare (psicosi maniaco-depressiva) e la sua netta distinzione dalle altre malattie mentali. Le prime concezioni di Freud sulla genesi della malinconia risalgono al 1916.

Dal 20° sec. il concetto di malinconia è usato in modo del tutto sovrapponibile a quello di depressione endogena.

La parola deriva dal latino melancholia, che a sua volta trae origine dal greco melancholía, composto di mélas, mélanos (nero), e cholé (bile), quindi bile nera, uno dei quattro umori dalle cui combinazioni dipendono, secondo la medicina greca e romana, il carattere e gli stati d'animo delle persone.

La malinconia è una sorta di tristezza di fondo, a volte inconsapevole, che porta un soggetto al vivere passivamente, senza prendere iniziative, adattandosi agli avvenimenti esterni con la convinzione che non lo riguardino o che in essi non possa avervi un ruolo determinante.

Si potrebbe definire come il desiderio, in fondo all'anima, di una cosa, di una persona mai conosciuta o di un amore che non si è mai avuto, ma di cui si sente dolorosamente la mancanza o per raggiungere il quale non ci si sente all'altezza. La malinconia si manifesta in espressioni del viso e in atteggiamenti indolenti che caratterizzano spesso l'intera esistenza di un individuo.

Il malincolico tende spesso, inoltre, ad escludersi dalla vita sociale, interrompendo i legami affettivi (come l'amicizia), per poi, quando lo stato malincolico è più celato, risanare i labili rapporti. Questo è, dunque, un continuo stato di transitorietà e di tumulto interno che porta il soggetto, tra l'altro, a negare il passare del tempo, volgendosi con languore verso un passato o un futuro idilliaco, fuori dal tempo, che tuttavia è reputato impossibile da stabilire nel presente.

In psicoanalisi la malinconia assume il significato di lutto, principalmente quando questo riguarda un oggetto investito narcisisticamente, cioè quando riguarda un investimento pulsionale su un oggetto che può essere ricondotto a caratteristiche o attributi propri della persona. Per cui nella perdita della melanconia è l'Io a sentirsi svuotato e non la realtà esterna, come avviene nel lutto. La parte dell'Io identificata con l'oggetto perduto va incontro a scissione e s'instaura una dinamica interna che genera collera per questa perdita che il Super-Io non accetta e si sfoga attaccando l'Io. Questo determina le autoaccuse tipiche della melanconia.




LEGGI ANCHE : http://cipiri9.blogspot.it/2015/09/autunno.html







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sabato 19 settembre 2015

AUTUNNO



Autunno. Già lo sentimmo venire

nel vento d'agosto,

nelle piogge di settembre

torrenziali e piangenti,

e un brivido percorse la terra

che ora, nuda e triste,

accoglie un sole smarrito.

Ora passa e declina,

in quest'autunno che incede

con lentezza indicibile,

il miglior tempo della nostra vita

e lungamente ci dice addio.

L'autunno è una stagione che nel suo significato connotativo simboleggia il periodo della maturità che precede la vecchiaia. Cardarelli attraverso le belle immagini della poesia trasmette, oltre questo significato, quelli dello scorrere del tempo, del distacco da un tempo più lieto e del presentimento della morte (temi presenti ossessivamente nell'opera del poeta).

Leggendo questa bellissima poesia di Vincenzo Cardarelli colpisce particolarmente come il poeta sia riuscito a trasmettere le sue emozioni, la sua malinconia e la sua piena consapevolezza del tempo che scorre veloce ed inesorabile. Egli traduce in note musicali le sensazioni suscitate nel suo animo dal trapasso dall'estate all'autunno. Non sono presenti rime, si tratta di una lirica breve composta da versi liberi, sottolineata dall'uso accorto delle pause segnate dall'interpunzione ma anche dal respiro proprio alla lettura (ultime due righe), ai quali si contrappone una poesia più elaborata, maggiormente “orchestrata”, e ricca di paragoni e riferimenti alla vita del poeta.

È chiaro che Cardarelli, con questa poesia, abbia voluto esprimere i cambiamenti della natura con l'allontanarsi dell'estate, ma soprattutto ci presenta, non senza una certa tristezza, i cambiamenti del suo corpo e della sua anima. L'autunno è una stagione che simboleggia il periodo della maturità che precede la vecchiaia. Cardarelli attraverso le belle immagini della poesia trasmette, oltre questo significato, quelli dello scorrere del tempo, del distacco da un tempo più lieto e del presentimento della morte. Non si può certo dire che a serenità sia presente nei pensieri del poeta, anzi, si avverte anche una certa ansia nei primi versi della poesia, egli probabilmente già da tempo rimugina su questi pensieri, e ora che l'Autunno della sua vita è giunto, si trova ad affrontarlo solo e desolato, come la nuda terra. Penso che sia proprio la solitudine sia il tema ossessivo di tutta la poesia.




Tra i versi, non esiste nemmeno un ombra di speranza o consolazione, il poeta già da tempo teme l'avvicinarsi dell'inverno, nel travagliato periodo estivo ha osservato i primi cambiamenti del tempo ma probabilmente li ha ignorati. Non ci sono segni di ricordi ai bei tempi passati, o ad una lieta gioventù, anzi, la sensazione che si prova leggendo le ultime righe è quasi di rimorso da parte del poeta. Egli sente di non aver vissuto a pieno la sua gioventù e ora sente di non poter far nulla per poter riscattare il tempo perso, così prende il sopravvento la sua rassegnazione, attenderà l'arrivo della morte.

L'autunno astronomico nell'emisfero boreale, nell'anno bisestile (cioè quando l'anno solare viene riallineato con l'anno siderale), ha inizio il giorno dell'equinozio d'autunno, il 23 settembre e termina il 21 dicembre. Avvicinandosi a questo periodo la parte illuminata e le ore di luce diminuiscono. Il 23 settembre (in base al giorno dell'equinozio d'autunno) i raggi del sole sono perpendicolari all'equatore e il circolo d'illuminazione passa per i poli. La sua durata è di 89 giorni e 18 ore circa nell'emisfero nord, mentre è di 92 giorni e 21 ore circa nell'emisfero sud dal momento che qui esso inizia il 21 marzo e termina il 21 giugno.

Meteorologicamente invece si considerano estate e inverno i periodi di tre mesi rispettivamente più caldi e più freddi: in tal modo primavera e autunno sono definiti come i periodi intermedi. In tal senso l'inizio dell'autunno meteorologico varierà da paese a paese principalmente in base alla latitudine.




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